martedì 4 agosto 2015

Ritual: una storia psicotragicomica (di cui non c'era poi quel gran bisogno)

Giulia Brazzale e Luca Immesi si producono in un film à la Sorrentino (modello già di per sé discutibile, anche al meglio della sua forma) puntando sulle atmosfere di genere, a cavallo tra l'horror psicologico e un erotico un pizzico grottesco, tra la rude supremazia di lui alla Cinquanta sfumature di grigio e la monta furiosa sul tavolo à la Non ti muovere (o à la Amici miei - Atto II).
Il titolo Ritual si riferisce ai miracolosi interventi della santona di famiglia, la vecchia zia che estrae masse di carne dalla pelle intatta con il trucchetto del mago Do Nascimento (che poi è lo stesso con cui il mago di quartiere che tira le monetine fuori dalle orecchie dei bimbi, o con cui Leslie Nielsen in L'aereo più pazzo del mondo tira fuori dalla bocca di una signora uova a ripetizione). Eppure, sembra anche descrivere la natura e l'essenza di questo film: un rituale, appunto, una vana ostentazione, un'esibizione vuota e priva di anima come di carne. Abbiamo davanti un formalismo esasperato e vacuo, che riempie gli occhi per pochi minuti con la ricercatezza delle simmetrie, la freschezza delle inquadrature ricavate nei vani nascosti e nelle fessure del legno, l'eleganza delle forme, l'armonia sconcertante dei colori neutri, ma poi
Locandina. Da notare il nome di
Jodorowsky e da cercare con la
lente d'ingrandimento quelli di
Brazzale e Immesi.
implode irrimediabilmente nella propria nullità (oltre a sciuparsi in un disordinato carnevale di messe a fuoco creative ma reiterate e inquadrature capovolte/basculanti/impreviste/imprevedibili, pesantemente giustapposte in sequenze belle quanto inutili.

Personalmente, mi pare che il film intero si basi sostanzialmente su due elementi: il lusso degli ambienti e un freudismo spicciolo da film dell'orrore. La scenografia, come la regia, mantiene sontuosità e splendore per poco, e poi si affanna in una ridondanza di ambienti lustri ed invivibili, fastosi fino all'inopportuno, che invece di incorniciare oscuramente una storia claustrofobica la osservano ottusamente, come fuori posto, esageratamente, dallo studio dello psicologo simil-Reggia di Caserta alla sobria dimora di provincia di una zia sola, un castello di mille stanze ammobiliate in stile aristocrazia decaduta (da poco). Il lusso esasperato degli ambienti distrae e irrita, a dispetto del bellissimo e gelido colonnato che ci aveva illuso, nei titoli di testa, con le sue promesse di misurata eleganza.
Le sequenze più oniriche e surreali scimmiottano insensibilmente il cinema di Jodorowsky, sulla cui fama è impostata tutta "l'immagine" del film, a partire dal nome sbandierato in locandina (a fronte di una "partecipazione straordinaria" assolutamente inosservata) con un carattere poco più piccolo del titolo e molto più grosso del nome di registi e attori protagonisti. Lo stesso sottotitolo, Una storia psicomagica, più che un omaggio al maestro cileno sembra un abuso parassitario, tanto più che la psicomagia che permea il film sembra banalmente composta di psicoanalisi fai-da-te e di rimedi caserecci contro i malanni, secondo la tradizione e il folklore locale.
Infine, a contribuire al suono stonato del film è la dismisura "geografica" da cui è afflitto. Tra "l'infinitamente grande" dei fastival internazionali e "l'infinitamente piccolo" del filmetto autoprodotto che si ritaglia uno spazietto nei cinema locali manca la preziosa copula mediatrice: abbiamo allora un mix disomogeneo, un'acqua e olio di internazionalità e provincialismo, tra il titolo assurdamente e immotivatamente inglese anche nella versione italiana e le attempate signore (la zia Vanna Marchi e una sua cliente inconsapevole) che disquisiscono amabilmente in dialetto veneto, assise sul divano parte della lussuosa mobilia di cui prima.
Ultima nota di demerito: le punte irredimibili di trash. A proposito, attenti al finale: è molto peggio del gallo che Gassman doveva sgozzare sulla tomba di sua madre.

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