venerdì 11 dicembre 2015

Il nazismo secondo Tinto Brass: "Salon Kitty"

"Salon Kitty" si basa su una delle fantasie più gettonate nei porno di quart'ordine, quella che ha dato vita ad un vero e proprio filone, il nazi-porno. Il film si apre con la selezione di donne bellissime ma anche intelligenti e soprattutto di comprovata fede nazista per sollazzare gli ufficiali nel Salon Kitty, bordello di Berlino rimesso a punto per l'occasione. L'obiettivo è avere donne ben addestrate e di fiducia pronte a raccogliere informazioni e denunciare eventuali traditori, ma il raffinato sistema spionistico (consolidato per buona misura da microspie e nastri registrati) è ben mascherato. Le splendide e spietate SS devono essere prostitute credibili, perciò durante la selezione devono avere dei rapporti sessuali random in una stanza affollata di soldati e poi con soggetti verso i quali certamente provano una nazistissima repulsione, dagli ebrei agli zingari ai mutilati.
Tra le candidate che superano brillantemente le prove, sacrificando alla missione pudore e gusti personali, c'è Margherita, una giovane di famiglia borghese, devota al Terzo Reich e piena di carattere, capace di immolarsi a una causa e di prendere decisioni radicali. È il modello del perfetto fanatico: non stupida ma indottrinata, tanto ferma da piegare l'intelligenza al credo, abbastanza esaltata da obbedire a qualunque ordine del suo regime e sacrificare il proprio orgoglio (emblematica la scena in cui Wallenberg, il tenente delle SS a capo dell'affare Salon Kitty, durante un normale colloquio in salotto la costringe su quattro zampe).






Sì, il film prende le mosse dalla solita zozzeria vintage, ma non si riduce a questo. Tinto Brass non manca di unire l'utile al dilettevole (rappresentato dagli splendidi nudi femminili e dalla trama che scivola destramente verso il film di spionaggio). In questo caso (come in "Paprika", film di denuncia contro la legge Merlin, o nel leggero e colorato "Monella", che prende di mira la rigidità maschilista e ipocrita della società, esaltando di contro l'emancipazione femminile), l'"utile" è rappresentato dalla non velata e non banale analisi politica e sociale. Tinto Brass suggerisce una sua lettura del fenomeno nazista molto vicina a quella offerta da Bertolucci nel film del 1970 "Il conformista", che rielabora e accentua alcuni aspetti dell'omonimo romanzo di Moravia. Un aspetto comune al romanzo del 1951 e al film di Bertolucci (vicino a "Salon Kitty" anche per la rappresentazione simmetrica, grandiosa e immobile degli interni dei luoghi di potere) è la correlazione tra fede nazi-fascista e un orientamento omosessuale latente e rifiutato. Marcello, il protagonista-conformista, è un criptogay e cerca di sfuggire alla sua condizione di avvertita "anormalità" nascondendosi in un culto di massa, che lo confonda in mezzo agli altri, e soprattutto in un culto della virilità, del machismo, del gallismo. Slavoj Žižek, in un libro per altri versi deludente, fa riferimento alle allusioni omosessuali che formano il sostrato goliardico al cameratismo dei soldati, controbilanciato da un'esplicita quanto violenta omofobia. Anche Tinto Brass, pur senza farne un cardine di "Salon Kitty", sfiora la tematica: i camerati che vediamo nel suo film non si limitano a condividere spazi e attività fisiche, esercitandosi nella scherma o beandosi romanamente nella sauna. Quello che vediamo è un ricorrente affollarsi di nudi maschili nella stessa stanza, anche laddove l'economia del racconto non lo richiederebbe: paradossalmente, i genitali maschili non sono molto esposti nelle scene che vedono un singolo uomo alle prese con una donna, nel bordello o altrove (più volte vediamo Margherita coinvolta in attività sessuali che vedono l'uomo quasi completamente vestito), ma sono numerosi ed evidenti nelle scene di gruppo, dove solo uomini nudi o seminudi riempiono un ambiente cameratesco da cui le donne sono escluse o in cui sono ospitate marginalmente, una sorta di androceo sormontato dalle aquile del Reich e dal mito fallico.
A questa latente omosessualità maschile abbinata all'immancabile omofobia militaresca, fa ovviamente da complemento la misoginia: la figura femminile disprezzata, significativamente, non è la prostituta ma la moglie. Il tenente Wallenberg umilia Margherita nell'ambito sessuale ma mostra verso di lei una sorta di rispetto cameratesco, proprio in quanto lei stessa SS, mentre tratta la moglie come una sguattera o perfino come un cane (la donna deve servirlo e poi allontanarsi senza fiatare, viene cacciata via diverse volte e con modi bruschi, nessuno risponde ai suoi saluti, è spesso costretta in ginocchio o in posizione china e sottomessa). Anche qui è possibile un richiamo ad un altro film italiano, che pur con ben altri mezzi espressivi esplora in modo delicato e approfondito questa ambiguità della società nazi-fascista, che spinge l'uomo verso la donna vista come oggetto sessuale, contemporaneamente reprimendo e umiliando la moglie, relegata a massaia e fattrice, lo splendido "Una giornata particolare" di Ettore Scola.
A più riprese e in diverse forme, compresa dunque quella della gerarchizzazione sessuata della famiglia, si presenta la tematica del potere. Al riguardo è notevole il cammeo di Aldo Valletti, il Presidente di "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini: in questa pellicola, che precede di poco l'uscita di "Salon Kitty", il Presidente è tra i quattro potenti e perversi sui cui vizi si impernia tutta la narrazione, che pone continuamente in relazione l'(ab)uso sessuale e l'esercizio del proprio potere. Potere che, come rivela Wallenberg nella confessione che Margherita riesce a strappargli, è fondato su un credo strumentale (quello del Terzo Reich): gli ufficiali, i superiori, i vertici della piramide non credono a ciò che propagandano, ma ci crede in buona fede il popolo, e proprio questa devozione al nazionalsocialismo li rende utili, ubbidienti, sudditi perfetti e relativamente contenti.

Anche sotto l'aspetto formale "Salon Kitty" non manca di dettagli curati e notevoli. Ossessivo è l'uso degli specchi: molte scene raffigurano gruppi e coreografie, e quasi tutte le altre riproducono artificialmente l'effetto comitiva moltiplicando la figura dei pochi protagonisti (Margherita che si aggira seminuda nella camera da letto non si limita a riflettersi in uno specchio, ma è moltiplicata cinque-sei volte). Quasi sempre lo specchio non è uno ma sono molti, tutti centrati sullo stesso oggetto-soggetto, sempre un corpo umano, che si trova riprodotto al centro dell'inquadratura e anche nelle periferie, incornicia se stesso. È pressoché assente lo specchio come strumento e simbolo di dualità, contrapposizione e doppio, perché l'immagine riflessa lo è sempre più volte: si crea contemporaneamente un effetto-folla e un'attenzione smodata, morbosa su un singolo soggetto (spesso Margherita) che riempie di sé praticamente tutta la stanza. Da un lato, cogliamo il solito vezzo voyeuristico di Tinto Brass, amplificato dall'immagine riflessa, e dall'altro lato indoviniamo dei riferimenti psicoanalitici o, ancora, all'uomo-massa perfetto per il regime: Margherita, nazista ideale ed efficiente, è uguale a tantissime altre Margherita che la circondano senza distinguersi in alcun modo. Agostino Gemelli scriveva: 


«la miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l'assenza di ogni qualità: l'essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e all'assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della macchina bellica».

Torna così, ancora, l'uomo-folla che si sforza di essere il Conformista, l'Uomo Qualunque che nel partito nato nel 1946 raccoglie l'eredità più grossolana del fascismo (che ancora oggi ci perseguita nelle varie forme del populismo di destra e del qualunquismo "né di destra né di sinistra"), l'individuo-massa di Ortega y Gasset che "delega in bianco" il suo potere-pensiero, obbedendo e sottomettendosi ad un potere forte e rassicurante, perdendo la propria unicità e individualità. Le tante Margherita allo specchio sono i tanti visi anonimi della folla adorante, in cui Marcello Clerici de Il Conformista brama di perdersi, i tanti anonimi "Urrà" che si alzavano nelle adunate oceaniche. Le SS-prostitute di "Salon Kitty" sono i soldati perfetti di Agostino Gemelli, virtuose perché senza virtù, la cui qualità migliore è rappresentata da fede cieca, abnegazione, volontà di lasciarsi manipolare. Non a caso è proprio Margherita, la donna più forte di carattere e di più acuta intelligenza, a rompere l'incantesimo: innamorandosi di un traditore diventa diversa dalle altre, rompe la magia della folla, torna ad essere un singolo individuo chiamato in prima persona a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni e azioni. Nel finale, brinda con Kitty alla caduta del Reich.



  • A chi volesse approfondire suggeriamo: "Bernardo Bertolucci. Il conformista", Franco Prono, Lindau (1998), libro che analizza il film in modo molto dettagliato, prestando attenzione anche ai molti rimandi psicanalitici.
  • Il libro a cui faccio riferimento è "Il segreto sessuale della Chiesa", Slavoj Žižek, Mimesis Edizioni (2010).
  • La citazione di Agostino Gemelli è riportata da Angelo Del Boca nel libro "Italiani bravi gente?", Neri Pozza Editore (2005), nel capitolo sulle colpe di Cadorna.

sabato 5 dicembre 2015

Le condizioni materiali della vita: "Blue Jasmine"


Due sorelle, Ginger e Janet/Jasmine: pur provenendo entrambe dallo stesso retroterra sociale e familiare, si ritrovano da adulte ad appartenere a due mondi enormemente distanti. Ginger, bassina e mora, vestita in modo casual e un tantino cafone, fa la cassiera in un supermercato di San Francisco. Jasmine, alta e bionda, estremamente elegante e dotata di accessori costosi, è la moglie di un pezzo grosso della finanza. La rovina della famiglia di Jasmine la spinge verso la sorella umile e salariata, in cerca di ospitalità e aiuto economico. Ormai vedova e povera, reduce da un grave esaurimento nervoso che ancora la disturba, deve reinventarsi una vita, preferibilmente non umile, e quasi ci riesce. Quasi.
In "Blue Jasmine", un Woody Allen reduce dallo scialbo tentativo di ritrarre le classi subalterne e la bellezza della vita semplice e quotidiana nel tremendo "To Rome with Love", torna a fare ciò che sa fare meglio: raccontare le vite patinate ma spesso meschine della borghesia. Rispetto per esempio a "Match Point", vediamo nel film interpretato da Cate Blanchett una classe alta meno stereotipata e vista con occhio meno benevolo. Mentre nel film del 2005 l'alta borghesia è formata di individui goderecci ma tutto sommato generosi, immancabilmente vittime della cupidigia dei più poveri (qualcosa mi ricorda "Il capitale umano"...), in "Blue Jasmine" è proprio dalla famiglia di Janet/Jasmine che si dipana la rovina, anche per la sorella salariata e il marito operaio. Infatti, la bionda Janet è vedova perché il suo geniale marito si è impiccato in cella, luogo in cui si trovava dopo un'indagine dell'FBI, che lo aveva rivelato come un ladro e un truffatore, capace di grandi donazioni e filantropia ma con soldi sottratti senza scrupoli anche a piccoli investitori. L'aspetto più doloroso della vicenda è che l'umile sorella Ginger aveva avuto, con suo marito, la chance di elevarsi dalla sua condizione sociale: avevano vinto un'enorme somma e, con fraterna fiducia, l'avevano affidata agli investimenti del cognato. Così, la famiglia più ricca ha continuato ad arricchirsi a discapito della più umile, che ha visto sfumare l'occasione di una vita, e tutto ciò nonostante il legame tra le due donne. Ginger non ne fa una colpa alla sorella, perché crede alla versione di lei: il ladro era lui, lei non sapeva nulla. Ma Janet/Jasmine è un personaggio "fasullo" (come viene a più riprese definita nel film stesso) fin dal nome, e la pervasività della sua falsità esploderà con tutte le sue conseguenze (e, retrospettivamente, rivelerà dei retroscena occulti) solo verso il finale.
Una scena mi è risultata un po' plastificata, un po' "film di Natale", ed è quella in cui Ginger e Chili, dopo la riconciliazione, giocano come bambini con un pezzo di pizza, mentre Janet si avvia col trucco colato e gli psicofarmaci in mano verso l'ultima tappa della rovina. Ad uno sguardo frettoloso, quella scena può trasmettere uno pseudo-significato, cioè un vuoto di significato, un luogo comune buono solo a ripulire la coscienza delle classi alte e a mantenere saldo il giogo sulle classi subalterne: quando si è più poveri si è più felici. Onestamente, non ritengo Woody Allen capace di una tale banalità e di una tale malafede, e la mia lettura mi pare dimostrata dal percorso compiuto dalla tragedia attraverso le vite delle due protagoniste: anche all'inizio del film Ginger era povera, e lo è ancor di più dopo essere stata truffata dal cognato. Viceversa, Janet/Jasmine è infelice sia all'apice della sua ricchezza, quando i lussi e la non-necessità di lavorare non bastano a risarcirla dei continui tradimenti del marito, sia una volta disintegrato il suo patrimonio. In realtà, la correlazione degli avvenimenti con la felicità in "Blue Jasmine" segue la traccia altrettanto borghese ma molto meno perversa del "sentimento": le due donne riescono a ricavarsi un pezzetto di felicità solo nell'illusione o nella concreta realizzazione dell'armonia di coppia e/o familiare. Il fattore economico è conteggiato per lo più come simbolo di altro, degli abiti casual in luogo delle borse Louis Vuitton, del lavoro come segretaria da un dentista piuttosto che quello di antropologa o di arredatrice. Ancora una volta, non è la ricchezza a fare la felicità né l'infelicità, ma a essere la spia visibile di un atteggiamento interiore della protagonista, delle sue ambizioni frustrate, del suo attaccamento ai beni materiali ma soprattutto ad una più alta concezione di sé. In un dialogo bellissimo spiega per quale ragione odiava l'idea di lavorare come commessa in un negozio di scarpe: non è tanto il basso stipendio rispetto alle rendite astronomiche a cui l'aveva abituata il marito truffatore, quanto l'umiliazione di dover servire donne dell'alta società che fino al giorno prima la invitavano ai loro ricevimenti. Umiliazione a cui Ginger, nata e rimasta in una classe sociale che la costringe a vendere il proprio lavoro per vivere, non avrebbe potuto sottrarsi. È questo che Jasmine non riesce a superare: non tanto la privazione materiale della ricchezza (vende le sue pellicce e i suoi gioielli) quanto la sofferenza mai sperimentata prima dell'impotenza sociale, dell'improvvisa povertà che di colpo le ha tolto la possibilità di scegliere che professione praticare, in che luogo abitare, come trascorrere il suo tempo. Il legame tra condizioni materiali della vita e risultati "immateriali" (frequentazioni, attività, spostamenti, svaghi) è mostrato con forza ma altrettanta attenzione è dedicata alla lotta interiore di Janet contro Jasmine, della donna contro il personaggio che ha fatto di sé, con il suo orgoglio e il suo calcolo, la sua pretesa di superiorità e la sua superba incapacità di ammettere la sconfitta.