giovedì 10 marzo 2016

Le "storie marginali" di Luis Sepúlveda

"Le rose di Atacama" è una raccolta di racconti che nasce da un viaggio. Sepúlveda visita il campo di concentramento di Bergen Belsen, in Germania, sulla scia di Anna Frank, nella certezza che «la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi». Non trovando segni del passaggio di Anna Frank, Sepúlveda annota: «Alla morte fisica, i boia avevano aggiunto la seconda morte dell'oblio e dell'anonimato».
È allora che una scritta, incisa con un chioso o un coltello su una pietra, vicino al forni crematori, balza all'occhio di Sepúlveda: Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.
In questo urlo di sconforto lanciato ai posteri inconsapevoli risiede tutto lo spirito delle historias marginales (titolo originale della raccolta) raccontate da Sepúlveda. Il pensiero dell'autore, di fronte a quella traccia seminascosta e quasi perduta nel deserto della storia, si muove verso le tante storie marginali che ha raccolto nel corso della sua vita e dei suoi viaggi: storie con la S minuscola, così piccole che nessun libro ne serba memoria, quasi perdute.
La scoperta di Sepúlveda è che anche le storie marginali, quelle sottilissime che ogni giorno rischiano l'oblio, contengono in sé qualcosa della Storia, qualcosa di universale che le rende altrettanto degne di essere ricordate. Ancor di più: le piccole storie di questa raccolta sono quelle che devono essere conservate, proprio perché, a differenza delle gesta dei Cesari, non hanno dei canali istituzionali o massivi da cui essere tramandate ai posteri. Solo la penna di uno scrittore accorto e sensibile può salvare queste microstorie dallo spreco, dall'annullamento nel fragore delle storie più grandi, o anche altrettanto piccole ma più visibili, più chiassose, più centrali. "Le rose di Atacama" raccoglie frammenti di vite periferiche, di quelle che si raggrumerebbero nei margini bianchi di un libro di storia o di un grande romanzo di passioni o avventure, sarebbero scartate come pulviscolo e resterebbero invisibili.
La storia più commovente, forse, è quella del cileno Carlos Gálvez, professore che perde un figlio, torturato e incarcerato dopo il golpe di Pinochet, e poi anche la patria e il lavoro. Costretto all'esilio, si reinventa una vita ad Amburgo, senza conoscere una parola di tedesco e senza altro che la voglia di sopravvivere. Finisce col vendere giornali fuori dalla metropolitana, mentre di notte sogna di far lezione davanti ai suoi allievi e si sveglia al mattino con le dita sporche di gesso. L'esilio di Gálvez è multiplo: è costretto fuori dal suo Paese, dalla sua vita quotidiana e dalla sua lingua materna. Per questo, quando Sepúlveda lo porta con sé a Madrid in viaggio di piacere, il professore Gálvez si scioglie in pianto: non per i ricordi affiorati, non per le difficoltà della nuova vita, ma per l'emozione di ritrovarsi in un luogo abitato dalla lingua spagnola. «Siamo tornati in patria, capisci?» chiede a Sepúlveda nel caffé Gijón di Madrid, lui, cileno: «La nostra lingua è la nostra patria».
E come la storia di Gálvez, ne scopriamo altre, altrettanto piccole e quasi indifferenti al corso della storia, eppure così necessarie da salvare, da trasmettere: la storia dei gemelli Duarte, trapezisti che solo la polizia fascista ha potuto dividere; la storia del poeta ebreo Avrom
Sutzkever, che catturato e condannato a morte dai nazisti trova la forza di sopravvivere vedendo le due parti di un verme che continuano a dibattersi dopo essere state tagliate da una pala; la storia di "un tal Lucas", che con i suoi amici si rifugia nella selvaggia Patagonia a vivere come un pioniere, per sfuggire e combattere la barbarie dell'industria onnidivorante, «gli orrori del progresso neoliberista» che disboscava il Paese intere in nome del profitto. E proprio dalla storia di Lucas apprendiamo la più bella parola d'ordine: quella della solidarietà. Appena trasferiti in Patagonia, senza esperienza di vita selvaggia né di agricoltura o costruzione delle capanne, i ragazzi capeggiati da Lucas rischiano di morire di freddo. Allora, degli abitanti della Patagonia, pur senza conoscerli, li raggiungono portando legna per le stufe e pece per tappare le fessure che rendono le capanne, malamente costruite dagli abitanti di città, gelide e inabitabili. Si mettono loro stessi al lavoro e quando Lucas chiede loro il perché di tanto disturbo, il loro portavoce risponde solo: «Perché fa freddo. Perché sennò?»
Le storie marginali di Sepúlveda, seppure con uno stile e un gusto molto diversi, ci ricordano il senso dei racconti di Raymond Carver: che anche nell'infinitamente piccolo, anche nel quotidiano e nel non-sensato (della vita reale, che è caotica e frammentata a differenza del pensiero, ordinato e iperrazionale) c'è ottima materia per la letteratura. E la letteratura, la scrittura, è il più maestoso e il più solido dei monumenti che l'uomo abbia imparato, nella sua Storia tortuosa e piena di vuoti di memoria, a erigere.

«Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate, perché il peso dell'infamia opprime, e all'angoscia del "cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?" subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime, di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l'oblio, di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori, dei nostri amori, dei nostri figli, dei nostri vicini e dei nostri amici, di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l'oblio, perché, come ha detto il poeta Guimaraes Rosa, narrare è resistere.»

giovedì 11 febbraio 2016

"The Hateful Eight": Tarantino chi?

All'uscita dal cinema una cosa mi è stata definitivamente chiara: che Tarantino ha buttato tutto alle ortiche, nella forma e nella sostanza. Vendetta, giustizia retributiva, distruttiva originalità, cronologie allucinate, il suo caratteristico citazionismo maniacale... Se una sola frase deve descrivere l'ultimo film di Tarantino, per me sia questa: non sembra un film di Tarantino.
"The Hateful Eight" è un film abbastanza comune, eccellente prodotto americano, dalla metà in poi intriso dello splatter molto cafone alla Rodriguez che in Tarantino si era sempre accompagnato a ben altro che al mero spiattellare sangue sullo schermo. Soprattutto, mi hanno amareggiato gli entusiasmi dei miei vicini di poltrona: chi abbia amato questo film, davvero, davvero, non so cosa mai abbia potuto apprezzare del Tarantino di "Le iene" o di "Pulp Fiction" se non parolacce e pistolettate.



L'iperrealismo dei dialoghi tarantiniani, quel loro involversi voluttuosamente su espressioni ripetute e ritornanti, quel loro indugiare gravemente su narrazioni e ipotesi sviscerate e rimontate secondo criteri quasi folli: anche tutto questo è sparito. Ne sono rimasti dialoghi ripetitivi e pesanti, semplicemente: inautentici, come un impacciato scimmiottare il gergo dei western, ridondanti, come un impacciato scimmiottare lo stile di Tarantino. E i tempi lunghi e lenti, quanto di meglio Tarantino avesse saputo ereditare e far personalmente e pienamente suo del cinema di Sergio Leone, quei tempi lunghi che facevano gustare ogni sguardo di sfida, ogni pausa, ogni attrito, in "The Hateful Eight" sono semplicemente tempi morti. La sostanza, dei dialoghi come delle situazioni, è come diluita in linguaggi e pose convenzionali. La stessa "diluizione" si riflette sull'aspetto formale, che pur dando luogo a belle inquadrature sul panorama innevato e sui dettagli di colore all'interno dell'emporio, contengono poco o nulla che rimandi alle tecniche registiche innovative di Tarantino, al suo tipico "marchio di fabbrica", al suo piglio postmoderno e assolutamente (nel senso etimologico di sciolto, libero dalle convenzioni) creativo.
I dialoghi, posticci e vacanti, sono messi in bocca a personaggi tutt'altro che indimenticabili. Su tutti brilla Samuel L. Jackson, inarrivabile per recitazione e autenticità, praticamente solista in un coro stranamente assortito. Tim Roth, che pure venero, in questo film mi sembra scimmiottare inutilmente i personaggi interpretati da Cristoph Waltz: la parlata forbita, l'accento straniero, l'abbigliamento, e ancor più evidentemente i vezzi e le espressioni del viso, i toni che dovrebbero suscitare ilarità o stupore. Chris Mannix è un personaggio psichicamente inesistente, privo di personalità, che sembra adattarsi ai diversi contesti senza avere alcun carattere né alcuno spessore: passa senza ragione dalla modalità stordito alla modalità Clint Eastwood, dalla modalità sudista-razzista a quella amicone dei neri. John Ruth, il personaggio interpretato dal mio amato Kurt Russell, per quanto esteticamente superbo, risulta pesante e ridondante: perfino le continue violenze e umiliazioni che impone alla sua prigioniera sono incapaci di suscitare irritazione o rabbia nello spettatore, e nella successiva sorte che tocca all'aguzzino non c'è catarsi né "giustizia", neppure tarantinianamente intesa. E la sua stessa prigioniera, Daisy Domergue, in apertura appare come un personaggio sopra le righe, una donna aggressiva e un po' fuori di testa, e promette di essere il miglior carattere, quello che riserverà più sorprese e alla fine si inserirà nella tradizione delle eroine vendicatrici tarantiniane: ovviamente non accade (quasi) nulla del genere e il potenziale rivoluzionario e catartico di questo promettente personaggio va alle ortiche insieme a tutto il resto. Ancora peggiori sono i personaggi marginali: uno su tutto, quello ritagliato di bell'e buono sulla persona di Zoë Bell (che pure in "Grindhouse - A prova di morte" aveva dato buona prova di sé nelle vesti di attrice), una specie di esaltata neozelandese che assurdamente si ritrova, giuliva e chiassosa, a guidare diligenze nel Wyoming vestita da indiana. Un personaggio inutile e perfino fastidioso, che con caratteristiche storicamente improbabili e una recitazione fin troppo enfatica sciupa un insieme che già di suo era sciupato.
Caratteristica principale di questo film, che non posso rimproverare a Tarantino ma di fatto ha generato un prodotto poco felice, è la sua finalità celebrativa. Infatti, la "ottina" del titolo non è tecnicamente composta di otto personaggi ma di nove, più altri di secondo piano; il titolo, un po' pretestuoso, non si riferisce effettivamente agli "otto" barricati durante una tormenta nell'emporio di Minnie, ma al film stesso, ottavo scritto e diretto dal nostro uomo. Un "odioso ottavo" film che si proponeva di essere il primo (e speriamo l'unico) pienamente firmato da lui: niente citazioni da altri registi, niente ruberie da vecchi western, perfino la colonna sonora è la prima interamente originale e composta da Morricone per l'occasione. Gli unici riferimenti che Tarantino ci offre sono a suoi stessi film: Michael Madsen (in pieno disfacimento fisico e dotato di un insieme mento-pappagorgia mai posseduto in precedenza) viene inquadrato dal basso, sullo sfondo del soffitto di legno scuro, con un'inquadratura che ricalca esattamente quella della strage dei Due Pini; Kurt Russell è inquadrato da sopra le travi, come usualmente Uma Thurman; i testicoli di un personaggio che non cito fanno la stessa fine delle «nazi balls» in "Bastardi senza gloria"; le battute di Roth ricalcano piuttosto fedelmente quelle di Waltz in "Django Unchained", e altro ancora. Eppure, questa celebrazione mi appare inautentica, perché proprio in quella che dovrebbe essere l'apoteosi del genio tarantiniano la sua mano esperta e ben riconoscibile sembra eclissarsi. Insomma, una festa senza il festeggiato.
Quanto al giudizio di non so bene chi, per cui questo film sarebbe addirittura "il più politico" di Tarantino... Onestamente, non so che film abbiano visto, considerato, per esempio, che il finale vede un sudista e un negro spanciarsi affettuosamente dalle risate, dopo aver osannato insieme Abramo Lincoln. Si calca di continuo la mano su "l'uomo nero, l'uomo nero": ebbene? In questo tema "Django Unchained" ha scavato ben più a fondo, pervenendo a risultati ben più solidi e palesi. No, questo film non ha nulla di politico, salvo una bella (davvero) riflessione sulla giustizia e sulla pena di morte, che Tarantino accenna (illudendomi) per bocca di Roth per poi tornare all'inutile carneficina. La considerazione è pronunciata dal boia della zona, che distingue tra la vendetta e la giustizia: l'omicidio compiuto da un braccio impersonale, animato da nessuna passione, che si limita a incarnare la legge, è considerato giusto dagli uomini; lo stesso omicidio, se compiuto dai parenti della vittima (ad esempio) può essere giusto (la solita giustizia retributiva che trionfa in "Kill Bill" come altrove) ma anche sbagliato, proprio perché pulsionale, perché non oggettivizzazione della legge ma di un singolo volere passionale. Riflessione sana e degna di essere approfondita, se non fosse che Tarantino la mette lì come un fegatello per non ripescarla più (anzi! Non voglio continuare a spoilerare, chi ha visto ha capito e chi vedrà capirà).
Quel che più mi dispiace, è che quest'ultimo film rischia di gettare, almeno per me, un'ombra retrospettiva sugli ultimi film di Tarantino; per non parlare delle sue produzioni future, dalle quali con diffidenza mi aspetterò di meglio. E mi dispiace anche che lui, Quentin Tarantino, abbia voluto accontentarsi, nel momento della meritata autocelebrazione, di un così misero monumento.

giovedì 14 gennaio 2016

Il fuoco della "vendetta ebrea": Quentin Tarantino ed Erri De Luca

Tarantino è come un incrocio stradale: un punto collegato a molti altri dalla linea retta di una citazione, di un tributo e di un furtarello musicale o scenografico. Tutti sanno delle colonne sonore rubate ai western degli anni '70, della tuta gialla che Beatrix Kiddo ha ereditato dall'ultimo film incompiuto con Bruce Lee, "Game of death", degli zoom improvvisi sui visi caratteristici di certa filmografia di serie B. E un regista come lui non merita che di essere citato e parodiato a sua volta, dai Simpson ai nostri Aldo Giovanni e Giacomo (in "Così è la vita" ma anche, di striscio, nel più recente e imbarazzante "La banda dei Babbi Natale"). Mentre aspettiamo l'uscita nelle sale del nuovo film di Tarantino, "The Hateful Eight", e pregustiamo la nuova caccia alla citazione, vi racconto di un'analogia che ho scovato altrove e di cui, credo, nessuno è responsabile. È una coincidenza che forse rivela qualcosa di un comune sentire, dell'immaginario come del sentimento nei confronti della storia, e uno come Tarantino non potrà comunque offendersene.
Ho rivisto in questi giorni "Bastardi senza gloria", con i suoi dialoghi di una stupefacente lentezza e i suoi tocchi perfino grotteschi. Per coincidenza, leggevo "Tu, mio" di Erri De Luca. Dalle pagine e dallo schermo è schizzata fuori una rete di analogie che mi lascia ben sperare: ripensare ai nazisti, all'Olocausto (di cui si fanno portavoce personaggi ebrei, ma che come tutti sanno ha coinvolto mille categorie deboli, dai rom ai disabili, dagli omosessuali agli oppositori politici), all'ideologia dello sterminio programmato, suscita in qualcuno (o in molti) un forte rifiuto? Un rigetto quasi fisico, che arriva al desiderio, pienamente tarantiniano, della vendetta?
Guardando la televisione, con le piazze piene di giovani e meno giovani inneggianti all'estrema destra, con pseudopolitici locali e meno locali invocanti ruspe per schiacciare zingari e immigrati, con prove quotidiane dell'acuirsi di intolleranze, pregiudizi e violenze che l'Europa e l'Italia hanno già conosciuto, mi auguro di sì. E che due autori così diversi come Erri De Luca e Quentin Tarantino abbiano vestito di colori simili il loro sentimento antinazista mi fa sperare che anche in strati e gruppi altrettanto diversi della società si coltivi un'opposizione almeno passionale se non ideologica a razzismi e neofascismi di ogni sorta.
"Bastardi senza gloria" (2009) è una fantasticheria, una fanfiction che Tarantino ha scritto per correggere la storia: il gioco di un bambino che si diverte a immaginare come sarebbe potuta andare. Non che sia andata troppo male: gli alleati inglesi, statunitensi e sovietici (i grandi assenti dalla pellicola di Tarantino, nonostante siano il popolo che alla lotta contro Hitler ha versato il maggior tributo di morti) hanno esorcizzato l'Europa dal mostro nero, che oggi torna sotto forme più velate e prive di reali antagonisti. Ma Tarantino non avrebbe riscritto la storia a suon di battaglie: i singoli eroi vendicativi sono quelli a cui ci ha abituato. Abbiamo allora i Bastardi guidati dal tenente Aldo Raine (Brad Pitt), ebrei americani, tedeschi e austriaci. E abbiamo Shoshanna Dreyfus, ragazza ebrea francese sfuggita alla strage della sua famiglia. Gli ebrei di Tarantino non si limitano a tentare di aver salva la vita o di salvarla a terzi: quello che vogliono è una vendetta sanguinaria, implacabile, splatter. I Bastardi uccidono i nazisti colpendoli a morte con una mazza da baseball (simbolo degli Stati Uniti contemporanei) e poi ne prendono gli scalpi (tocco western, riferimento al passato storico dello stesso Paese e alle origini Apache di Aldo Raine). La violenza è diffusa ma, quando tutte le mele marce si riuniscono in un solo cesto (come dice il generale Ed Fenech, così battezzato in onore della bellissima protagonista delle nostre commedie sexy), cioè quando Hitler, Goering, Goebbels e parte dello stato maggiore tedesco si riuniscono in un cinema per una prima, prende forma un piano circoscritto: fare saltare il cesto.
"Tu, mio" (1998) è un libro ambientato nell'Italia degli anni '50. Il giovane protagonista trascorre l'estate sull'Isola di Ischia, pescando con gli adulti, frequentando la comitiva del cugino Daniele qualche anno più grande e conoscendo ragazze forestiere e altri turisti di passaggio. Tra le nuove conoscenze del gruppetto di ragazzi c'è Haia, una ragazza ebrea che non vuole condividere con nessuno il suo passato doloroso e che riconosce in alcuni gesti del

protagonista la gestualità e il carattere di suo padre. Ciò spinge Haia ad aprirsi a lui, rivelandogli i suoi segreti di dolore e guerra, e lui a identificarsi con la causa di lei, degli ebrei sterminati, degli altri perseguitati, degli jugoslavi uccisi dagli italiani nelle terre occupate. I passaggi chiave dell'adolescenza del protagonista si intrecciano alla sua voglia di conoscere la storia per correggerla, ai racconti di guerra e all'odio verso i nazisti che, tolta l'uniforme, vengono a passare le vacanze sull'isola.
Ma che i nazisti si siano spogliati dell'uniforme non importa al protagonista di "Tu, mio", che prende di mira i tedeschi ubriachi che cantano l'inno delle SS in presenza di Haia e del loro gruppo. Né importa al tenente Aldo Raine, che per rendere i suoi nazisti riconoscibili per sempre li marchia in fronte con una cicatrice a forma di svastica. In entrambe le storie si incarna non solo la distanza dai persecutori, ma il bisogno di affrontarli e di farlo con il mezzo più brutale, che non si limiti ad ucciderli ma addirittura si proponga di non lasciarne traccia: lo strumento purificatore dei riti pagani, il "fuoco distruggitore" degli inni fascisti, ritorto contro gli aggressori. Lo stesso fuoco dei forni crematori in cui venivano fatti sparire i corpi dei deportati è, in Erri De Luca come in Tarantino, lo strumento della vendetta. Il giovane pescatore di Ischia si carica il fardello della famiglia sterminata di Haia, si identifica con suo padre e si vendica contro i tedeschi usando la benzina. I Bastardi si introducono nel cinema della prima carichi di armi da fuoco ed esplosivo. Shoshanna, sopravvissuta in incognito e ormai proprietaria del cinema, decide di dare fuoco a trecento pellicole altamente infiammabili bloccando tutti gli spettatori all'interno.
Il fuoco appare come un correttore della storia: uno strumento di morte, ma anche lo strumento dell'oblio. L'obiettivo è sì uccidere i nazisti, ma illudersi di cancellare, con loro, i crimini che hanno commesso, spazzarli via dalla storia, eliminare materialmente e storicamente lo sbaglio commesso appoggiandoli, lasciando che prendessero piede o semplicemente non resistendo. La vendetta operata col fuoco è una sorta di preghiera retroattiva, che esegue contro il male l'operazione esorcistica del dare fuoco, che dovrebbe farlo sparire, e a ciò accompagna il dolore inflitto ai nazisti come vendetta personale. Al centro del moto vendicativo c'è la figura della figlia, unica sopravvissuta alla famiglia, Haia/Shoshanna: il proiezionista Marcel come il piccolo pescatore, figure non esplicitate di amante/compagno, sono complici ed esecutori di una vendetta che non li riguarda direttamente (uno non ha subito persecuzioni in prima persona, l'altro è troppo giovane per ricordare la guerra). Il contrappasso è perfetto: il grido "Feuer!", fuoco, che i nazisti gridavano durante le esecuzioni sommarie è lo stesso che si alza dalla loro pensione data alle fiamme e durante il rogo nel cinema di Shoshanna. Io spero che nello stesso modo siano restituite ai nazisti di tutti i tipi le fiamme dei Bücherverbrennungen, i roghi di libri proibiti che cercarono di distruggere la cultura contraria al regime: il giusto contrappasso sono la lettura e lo studio, di quei libri e della storia (da cui il protagonista di "Tu, mio" è ossessionato e su cui fa domande agli adulti e agli ex-combattenti). La giusta misura con cui dovremmo restituire al nazifascismo il suo "fuoco distruggitore" è proprio quella che fa da sostrato al film di Tarantino come al libro di Erri De Luca: resistere e combattere. Non dimenticare il nazismo e i suoi delitti, ma bruciarlo dalla storia, farlo sparire dalle forme striscianti del presente, dai giudizi qualunquistici e dagli stereotipi, impedire che torni ad incarnarsi.