sabato 22 agosto 2015

Quando il falso vale più dell'originale: "Copia conforme" di Abbas Kiarostami

Il termine "originale" ha solitamente un'accezione positiva (a meno che non sia usato come sinonimo di "eccentrico" al fine di descrivere le abitudini di una gattara). L'originale è l'autentico ed è contrapposto all'artificioso, al fasullo, così come al volgare, all'impuro, al caricaturale. L'opera d'arte (va da sé) è autentica e in ciò si distingue dalla crosta e dal prodotto seriale; ma anche la vita è autentica, e perciò migliore rispetto alle ipocrisie sociali o alle vane ostentazioni (la vita mondana à La Grande Bellezza), ma anche moralmente più nobile della semplice messinscena. Se l'arte imita e riproduce la vita, tanto nell'una quanto nell'altra è possibile che l'autenticità (nelle sue diverse accezioni) sia messa in pericolo da un più o meno abile falsario. Copia conforme (2010) di Kiarostami gioca sulla possibilità che questa eventualità sia un bene e si diverte a creare, in un meccanismo un pizzico surreale ma fluido, un falso che sia più "autentico" dell'originale. Più autentico perché più denso, più pieno di senso, più ricco di sentimento, meno freddo e cinico, meno imbarazzato, più passionale e tenero, più pregno di calore familiare. Scopo del film è mettere in scena questo paradosso, facendo incrociare l'arte e la vita in una rete di similitudini che tre anni più tardi sarà il perno di un altro film italiano apprezzato all'estero, La migliore offerta di Tornatore. Anche quest'ultima pellicola mostra le implicazioni (sentimentali più che apodittiche) dell'antinomia autentico/imitazione e pone l'interrogativo sulla qualità del falso: l'autentico è ugualmente o parzialmente presente nell'imitazione, nel falso che cerca di somigliargli (di esserne copia conforme)? E nell'interrogativo emerso dalla comparazione dei due film spicca una sfumatura di significato legata all'intenzione: con quale fine si produce un falso? Per ingannare o per ingannarsi? Semplicemente per giocare a produrre una realtà (come versione "autentica" della messinscena come falso) che per quanto temporanea sia migliore di quella vera? Il film di Tornatore è facilmente fruibile e possiede tutte le caratteristiche (compreso lo spettacolare colpo di scena finale) propizie alla diffusione mainstream; molto più ricercato (e ambizioso) è il film di Kiarostami. Il suo esperimento è geniale, il risultato mi piace e non mi piace. 
Il pretesto narrativo è l'incontro tra Elle, una gallerista, e James, uno scrittore inglese venuto in Italia per presentare un libro incentrato proprio sulla tesi per cui una copia può ben valere quanto l'originale (o, secondo il film di Tornatore, in ogni falso c'è qualcosa di autentico che gli conferisce valore). I due si rivedono dopo la presentazione e trascorrono qualche ora insieme, dapprima in un clima irrigidito dalla scarsa conoscenza reciproca. Poi (occhio, sto per spoilerare) una barista che li scambia per marito e moglie fornisce senza saperlo il pretesto per trasformare l'originale (due sconosciuti che si indirizzano a vicenda approcci intellettualistici e arringhe filosofeggianti) in un falso ben più caloroso: senza accordarsi, in una simultanea e giocosa intesa, i due iniziano a recitare le rispettive parti. Si trasformano in una coppia sposata piena di risentimenti e questioni in sospeso, e il gioco non si interrompe neppure quando restano da soli. Continua per ore, vede il coinvolgimento di altri sconosciuti e l'intesa dei due protagonisti è così spontanea che tutti cascano nel tranello. Il falso è così ben fatto da essere preso per autentico anche dagli esperti (i passanti che danno consigli a James su come andare più d'accordo con "sua moglie"), ma non solo: è migliore dell'originale, più desiderabile, ma soprattutto (e paradossalmente) più verosimile del vero, perché solo dopo che la messinscena è iniziata tra i due inizia uno scambio umano spontaneo e caloroso, molto più autentico delle formalità e dei convenevoli con cui inizialmente tentavano di intavolare le loro conversazioni. I due iniziano a rinfacciarsi colpe passate e a ricordarsi eventi mai verificatisi, facendo così emergere i propri caratteri e le proprie debolezze in un modo così verosimile da ricostruire un intero passato inesistente e da manifestare una complicità che, nel loro gioco, si è solidificata in quindici anni di matrimonio (notevole, al riguardo, che Elle sia separata dal vero marito: anche da questo punto di vista, la copia è "meglio riuscita" dell'originale, nel senso che questo matrimonio falso resiste a tensioni e recriminazioni, e i due finti coniugi cercano di muoversi verso una riconciliazione che Elle non è riuscita a produrre nel suo matrimonio reale).
Locandina francese, molto più significativa
di quella italiana: ritrae Elle intenta a camuffarsi
per costruire la "copia conforme" di se stessa.
Il film è caratterizzato da una pulizia formale ammirevole e da una sobria eleganza. Tuttavia, alcuni elementi mi hanno reso questo film appena indigesto, a cominciare dall'intellettualismo un po' esasperato che anima tutta la prima parte e che trascina per lunghi e lunghi e lunghi minuti argomentazioni verbose e fredde. L'iperrealismo tarantiniano dei dialoghi è spalmato in modo omogeneo e il risultato è una verbosità piuttosto piatta e uniforme, oltre che un po' futile. Ma se la prima parte ha questa pecca, la seconda è a mio parere tarata da una ben più irritante: la sceneggiatura sembra essere solidamente impiantata su un insieme di luoghi comuni. Il punto di vista iraniano-francese-belga culmina nell'italianità rappresentata dal cantare a squarciagola "'O surdato 'nnamurato" durante una festa di nozze (in Toscana). Dettaglio sorvolabile senza troppe difficoltà, ma ancor più stereotipati sono i ruoli familiari e la visione stessa della famiglia: si va dalla protagonista che lamenta l'attaccamento al lavoro di suo marito, affermando che tutti gli uomini sono così mentre noi donne lavoriamo con moderazione (?!) alla risposta intrisa di una saggezza popolare un po' ottocentesca della barista che risponde di portar pazienza, che l'importante è che suo marito la renda una donna sposata. Ovviamente è presente anche la solita frecciata acida contro i novelli sposi, perché se sapessero che poi arrivano dei figli stronzi non avrebbero quel sorriso ebete quando si sposano. Mentre il falso-marito esce dal bar a ricevere una telefonata e ovviamente le donne si buttano a capofitto sull'eventualità di una falsa-amante a sottrargli il già scarso tempo libero. E così via, una banalità via l'altra. Ma forse queste osservazioni sono un po' esacerbate dalla mia pignoleria sensibile agli stereotipi maschilisti che ancora abbondano nel cinema, soprattutto quello ambientato in Italia che (dall'interno o dall'esterno, come in questo caso) ricalca i tratti più obsoleti della società patriarcale che si cerca di superare.
In realtà, della pecca più grave di questo film Kiarostami è assolutamente innocente: mi riferisco all'adattamento italiano, che trasforma il trilinguismo originale (italiano, francese e inglese) in un italiano standard e piuttosto assurdo, considerata la diversa nazionalità dei due protagonisti. La mutilazione delle lingue straniere mi riporta alla memoria il caso ben più straziante de Le Mépris di Godard, e anche se meno grave rimane un peccato (e il sacrificio, se finalizzato a rendere il film più scorrevole, credo sia stato inutile).

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