giovedì 10 marzo 2016

Le "storie marginali" di Luis Sepúlveda

"Le rose di Atacama" è una raccolta di racconti che nasce da un viaggio. Sepúlveda visita il campo di concentramento di Bergen Belsen, in Germania, sulla scia di Anna Frank, nella certezza che «la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi». Non trovando segni del passaggio di Anna Frank, Sepúlveda annota: «Alla morte fisica, i boia avevano aggiunto la seconda morte dell'oblio e dell'anonimato».
È allora che una scritta, incisa con un chioso o un coltello su una pietra, vicino al forni crematori, balza all'occhio di Sepúlveda: Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.
In questo urlo di sconforto lanciato ai posteri inconsapevoli risiede tutto lo spirito delle historias marginales (titolo originale della raccolta) raccontate da Sepúlveda. Il pensiero dell'autore, di fronte a quella traccia seminascosta e quasi perduta nel deserto della storia, si muove verso le tante storie marginali che ha raccolto nel corso della sua vita e dei suoi viaggi: storie con la S minuscola, così piccole che nessun libro ne serba memoria, quasi perdute.
La scoperta di Sepúlveda è che anche le storie marginali, quelle sottilissime che ogni giorno rischiano l'oblio, contengono in sé qualcosa della Storia, qualcosa di universale che le rende altrettanto degne di essere ricordate. Ancor di più: le piccole storie di questa raccolta sono quelle che devono essere conservate, proprio perché, a differenza delle gesta dei Cesari, non hanno dei canali istituzionali o massivi da cui essere tramandate ai posteri. Solo la penna di uno scrittore accorto e sensibile può salvare queste microstorie dallo spreco, dall'annullamento nel fragore delle storie più grandi, o anche altrettanto piccole ma più visibili, più chiassose, più centrali. "Le rose di Atacama" raccoglie frammenti di vite periferiche, di quelle che si raggrumerebbero nei margini bianchi di un libro di storia o di un grande romanzo di passioni o avventure, sarebbero scartate come pulviscolo e resterebbero invisibili.
La storia più commovente, forse, è quella del cileno Carlos Gálvez, professore che perde un figlio, torturato e incarcerato dopo il golpe di Pinochet, e poi anche la patria e il lavoro. Costretto all'esilio, si reinventa una vita ad Amburgo, senza conoscere una parola di tedesco e senza altro che la voglia di sopravvivere. Finisce col vendere giornali fuori dalla metropolitana, mentre di notte sogna di far lezione davanti ai suoi allievi e si sveglia al mattino con le dita sporche di gesso. L'esilio di Gálvez è multiplo: è costretto fuori dal suo Paese, dalla sua vita quotidiana e dalla sua lingua materna. Per questo, quando Sepúlveda lo porta con sé a Madrid in viaggio di piacere, il professore Gálvez si scioglie in pianto: non per i ricordi affiorati, non per le difficoltà della nuova vita, ma per l'emozione di ritrovarsi in un luogo abitato dalla lingua spagnola. «Siamo tornati in patria, capisci?» chiede a Sepúlveda nel caffé Gijón di Madrid, lui, cileno: «La nostra lingua è la nostra patria».
E come la storia di Gálvez, ne scopriamo altre, altrettanto piccole e quasi indifferenti al corso della storia, eppure così necessarie da salvare, da trasmettere: la storia dei gemelli Duarte, trapezisti che solo la polizia fascista ha potuto dividere; la storia del poeta ebreo Avrom
Sutzkever, che catturato e condannato a morte dai nazisti trova la forza di sopravvivere vedendo le due parti di un verme che continuano a dibattersi dopo essere state tagliate da una pala; la storia di "un tal Lucas", che con i suoi amici si rifugia nella selvaggia Patagonia a vivere come un pioniere, per sfuggire e combattere la barbarie dell'industria onnidivorante, «gli orrori del progresso neoliberista» che disboscava il Paese intere in nome del profitto. E proprio dalla storia di Lucas apprendiamo la più bella parola d'ordine: quella della solidarietà. Appena trasferiti in Patagonia, senza esperienza di vita selvaggia né di agricoltura o costruzione delle capanne, i ragazzi capeggiati da Lucas rischiano di morire di freddo. Allora, degli abitanti della Patagonia, pur senza conoscerli, li raggiungono portando legna per le stufe e pece per tappare le fessure che rendono le capanne, malamente costruite dagli abitanti di città, gelide e inabitabili. Si mettono loro stessi al lavoro e quando Lucas chiede loro il perché di tanto disturbo, il loro portavoce risponde solo: «Perché fa freddo. Perché sennò?»
Le storie marginali di Sepúlveda, seppure con uno stile e un gusto molto diversi, ci ricordano il senso dei racconti di Raymond Carver: che anche nell'infinitamente piccolo, anche nel quotidiano e nel non-sensato (della vita reale, che è caotica e frammentata a differenza del pensiero, ordinato e iperrazionale) c'è ottima materia per la letteratura. E la letteratura, la scrittura, è il più maestoso e il più solido dei monumenti che l'uomo abbia imparato, nella sua Storia tortuosa e piena di vuoti di memoria, a erigere.

«Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate, perché il peso dell'infamia opprime, e all'angoscia del "cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?" subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime, di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l'oblio, di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori, dei nostri amori, dei nostri figli, dei nostri vicini e dei nostri amici, di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l'oblio, perché, come ha detto il poeta Guimaraes Rosa, narrare è resistere.»

giovedì 11 febbraio 2016

"The Hateful Eight": Tarantino chi?

All'uscita dal cinema una cosa mi è stata definitivamente chiara: che Tarantino ha buttato tutto alle ortiche, nella forma e nella sostanza. Vendetta, giustizia retributiva, distruttiva originalità, cronologie allucinate, il suo caratteristico citazionismo maniacale... Se una sola frase deve descrivere l'ultimo film di Tarantino, per me sia questa: non sembra un film di Tarantino.
"The Hateful Eight" è un film abbastanza comune, eccellente prodotto americano, dalla metà in poi intriso dello splatter molto cafone alla Rodriguez che in Tarantino si era sempre accompagnato a ben altro che al mero spiattellare sangue sullo schermo. Soprattutto, mi hanno amareggiato gli entusiasmi dei miei vicini di poltrona: chi abbia amato questo film, davvero, davvero, non so cosa mai abbia potuto apprezzare del Tarantino di "Le iene" o di "Pulp Fiction" se non parolacce e pistolettate.



L'iperrealismo dei dialoghi tarantiniani, quel loro involversi voluttuosamente su espressioni ripetute e ritornanti, quel loro indugiare gravemente su narrazioni e ipotesi sviscerate e rimontate secondo criteri quasi folli: anche tutto questo è sparito. Ne sono rimasti dialoghi ripetitivi e pesanti, semplicemente: inautentici, come un impacciato scimmiottare il gergo dei western, ridondanti, come un impacciato scimmiottare lo stile di Tarantino. E i tempi lunghi e lenti, quanto di meglio Tarantino avesse saputo ereditare e far personalmente e pienamente suo del cinema di Sergio Leone, quei tempi lunghi che facevano gustare ogni sguardo di sfida, ogni pausa, ogni attrito, in "The Hateful Eight" sono semplicemente tempi morti. La sostanza, dei dialoghi come delle situazioni, è come diluita in linguaggi e pose convenzionali. La stessa "diluizione" si riflette sull'aspetto formale, che pur dando luogo a belle inquadrature sul panorama innevato e sui dettagli di colore all'interno dell'emporio, contengono poco o nulla che rimandi alle tecniche registiche innovative di Tarantino, al suo tipico "marchio di fabbrica", al suo piglio postmoderno e assolutamente (nel senso etimologico di sciolto, libero dalle convenzioni) creativo.
I dialoghi, posticci e vacanti, sono messi in bocca a personaggi tutt'altro che indimenticabili. Su tutti brilla Samuel L. Jackson, inarrivabile per recitazione e autenticità, praticamente solista in un coro stranamente assortito. Tim Roth, che pure venero, in questo film mi sembra scimmiottare inutilmente i personaggi interpretati da Cristoph Waltz: la parlata forbita, l'accento straniero, l'abbigliamento, e ancor più evidentemente i vezzi e le espressioni del viso, i toni che dovrebbero suscitare ilarità o stupore. Chris Mannix è un personaggio psichicamente inesistente, privo di personalità, che sembra adattarsi ai diversi contesti senza avere alcun carattere né alcuno spessore: passa senza ragione dalla modalità stordito alla modalità Clint Eastwood, dalla modalità sudista-razzista a quella amicone dei neri. John Ruth, il personaggio interpretato dal mio amato Kurt Russell, per quanto esteticamente superbo, risulta pesante e ridondante: perfino le continue violenze e umiliazioni che impone alla sua prigioniera sono incapaci di suscitare irritazione o rabbia nello spettatore, e nella successiva sorte che tocca all'aguzzino non c'è catarsi né "giustizia", neppure tarantinianamente intesa. E la sua stessa prigioniera, Daisy Domergue, in apertura appare come un personaggio sopra le righe, una donna aggressiva e un po' fuori di testa, e promette di essere il miglior carattere, quello che riserverà più sorprese e alla fine si inserirà nella tradizione delle eroine vendicatrici tarantiniane: ovviamente non accade (quasi) nulla del genere e il potenziale rivoluzionario e catartico di questo promettente personaggio va alle ortiche insieme a tutto il resto. Ancora peggiori sono i personaggi marginali: uno su tutto, quello ritagliato di bell'e buono sulla persona di Zoë Bell (che pure in "Grindhouse - A prova di morte" aveva dato buona prova di sé nelle vesti di attrice), una specie di esaltata neozelandese che assurdamente si ritrova, giuliva e chiassosa, a guidare diligenze nel Wyoming vestita da indiana. Un personaggio inutile e perfino fastidioso, che con caratteristiche storicamente improbabili e una recitazione fin troppo enfatica sciupa un insieme che già di suo era sciupato.
Caratteristica principale di questo film, che non posso rimproverare a Tarantino ma di fatto ha generato un prodotto poco felice, è la sua finalità celebrativa. Infatti, la "ottina" del titolo non è tecnicamente composta di otto personaggi ma di nove, più altri di secondo piano; il titolo, un po' pretestuoso, non si riferisce effettivamente agli "otto" barricati durante una tormenta nell'emporio di Minnie, ma al film stesso, ottavo scritto e diretto dal nostro uomo. Un "odioso ottavo" film che si proponeva di essere il primo (e speriamo l'unico) pienamente firmato da lui: niente citazioni da altri registi, niente ruberie da vecchi western, perfino la colonna sonora è la prima interamente originale e composta da Morricone per l'occasione. Gli unici riferimenti che Tarantino ci offre sono a suoi stessi film: Michael Madsen (in pieno disfacimento fisico e dotato di un insieme mento-pappagorgia mai posseduto in precedenza) viene inquadrato dal basso, sullo sfondo del soffitto di legno scuro, con un'inquadratura che ricalca esattamente quella della strage dei Due Pini; Kurt Russell è inquadrato da sopra le travi, come usualmente Uma Thurman; i testicoli di un personaggio che non cito fanno la stessa fine delle «nazi balls» in "Bastardi senza gloria"; le battute di Roth ricalcano piuttosto fedelmente quelle di Waltz in "Django Unchained", e altro ancora. Eppure, questa celebrazione mi appare inautentica, perché proprio in quella che dovrebbe essere l'apoteosi del genio tarantiniano la sua mano esperta e ben riconoscibile sembra eclissarsi. Insomma, una festa senza il festeggiato.
Quanto al giudizio di non so bene chi, per cui questo film sarebbe addirittura "il più politico" di Tarantino... Onestamente, non so che film abbiano visto, considerato, per esempio, che il finale vede un sudista e un negro spanciarsi affettuosamente dalle risate, dopo aver osannato insieme Abramo Lincoln. Si calca di continuo la mano su "l'uomo nero, l'uomo nero": ebbene? In questo tema "Django Unchained" ha scavato ben più a fondo, pervenendo a risultati ben più solidi e palesi. No, questo film non ha nulla di politico, salvo una bella (davvero) riflessione sulla giustizia e sulla pena di morte, che Tarantino accenna (illudendomi) per bocca di Roth per poi tornare all'inutile carneficina. La considerazione è pronunciata dal boia della zona, che distingue tra la vendetta e la giustizia: l'omicidio compiuto da un braccio impersonale, animato da nessuna passione, che si limita a incarnare la legge, è considerato giusto dagli uomini; lo stesso omicidio, se compiuto dai parenti della vittima (ad esempio) può essere giusto (la solita giustizia retributiva che trionfa in "Kill Bill" come altrove) ma anche sbagliato, proprio perché pulsionale, perché non oggettivizzazione della legge ma di un singolo volere passionale. Riflessione sana e degna di essere approfondita, se non fosse che Tarantino la mette lì come un fegatello per non ripescarla più (anzi! Non voglio continuare a spoilerare, chi ha visto ha capito e chi vedrà capirà).
Quel che più mi dispiace, è che quest'ultimo film rischia di gettare, almeno per me, un'ombra retrospettiva sugli ultimi film di Tarantino; per non parlare delle sue produzioni future, dalle quali con diffidenza mi aspetterò di meglio. E mi dispiace anche che lui, Quentin Tarantino, abbia voluto accontentarsi, nel momento della meritata autocelebrazione, di un così misero monumento.

giovedì 14 gennaio 2016

Il fuoco della "vendetta ebrea": Quentin Tarantino ed Erri De Luca

Tarantino è come un incrocio stradale: un punto collegato a molti altri dalla linea retta di una citazione, di un tributo e di un furtarello musicale o scenografico. Tutti sanno delle colonne sonore rubate ai western degli anni '70, della tuta gialla che Beatrix Kiddo ha ereditato dall'ultimo film incompiuto con Bruce Lee, "Game of death", degli zoom improvvisi sui visi caratteristici di certa filmografia di serie B. E un regista come lui non merita che di essere citato e parodiato a sua volta, dai Simpson ai nostri Aldo Giovanni e Giacomo (in "Così è la vita" ma anche, di striscio, nel più recente e imbarazzante "La banda dei Babbi Natale"). Mentre aspettiamo l'uscita nelle sale del nuovo film di Tarantino, "The Hateful Eight", e pregustiamo la nuova caccia alla citazione, vi racconto di un'analogia che ho scovato altrove e di cui, credo, nessuno è responsabile. È una coincidenza che forse rivela qualcosa di un comune sentire, dell'immaginario come del sentimento nei confronti della storia, e uno come Tarantino non potrà comunque offendersene.
Ho rivisto in questi giorni "Bastardi senza gloria", con i suoi dialoghi di una stupefacente lentezza e i suoi tocchi perfino grotteschi. Per coincidenza, leggevo "Tu, mio" di Erri De Luca. Dalle pagine e dallo schermo è schizzata fuori una rete di analogie che mi lascia ben sperare: ripensare ai nazisti, all'Olocausto (di cui si fanno portavoce personaggi ebrei, ma che come tutti sanno ha coinvolto mille categorie deboli, dai rom ai disabili, dagli omosessuali agli oppositori politici), all'ideologia dello sterminio programmato, suscita in qualcuno (o in molti) un forte rifiuto? Un rigetto quasi fisico, che arriva al desiderio, pienamente tarantiniano, della vendetta?
Guardando la televisione, con le piazze piene di giovani e meno giovani inneggianti all'estrema destra, con pseudopolitici locali e meno locali invocanti ruspe per schiacciare zingari e immigrati, con prove quotidiane dell'acuirsi di intolleranze, pregiudizi e violenze che l'Europa e l'Italia hanno già conosciuto, mi auguro di sì. E che due autori così diversi come Erri De Luca e Quentin Tarantino abbiano vestito di colori simili il loro sentimento antinazista mi fa sperare che anche in strati e gruppi altrettanto diversi della società si coltivi un'opposizione almeno passionale se non ideologica a razzismi e neofascismi di ogni sorta.
"Bastardi senza gloria" (2009) è una fantasticheria, una fanfiction che Tarantino ha scritto per correggere la storia: il gioco di un bambino che si diverte a immaginare come sarebbe potuta andare. Non che sia andata troppo male: gli alleati inglesi, statunitensi e sovietici (i grandi assenti dalla pellicola di Tarantino, nonostante siano il popolo che alla lotta contro Hitler ha versato il maggior tributo di morti) hanno esorcizzato l'Europa dal mostro nero, che oggi torna sotto forme più velate e prive di reali antagonisti. Ma Tarantino non avrebbe riscritto la storia a suon di battaglie: i singoli eroi vendicativi sono quelli a cui ci ha abituato. Abbiamo allora i Bastardi guidati dal tenente Aldo Raine (Brad Pitt), ebrei americani, tedeschi e austriaci. E abbiamo Shoshanna Dreyfus, ragazza ebrea francese sfuggita alla strage della sua famiglia. Gli ebrei di Tarantino non si limitano a tentare di aver salva la vita o di salvarla a terzi: quello che vogliono è una vendetta sanguinaria, implacabile, splatter. I Bastardi uccidono i nazisti colpendoli a morte con una mazza da baseball (simbolo degli Stati Uniti contemporanei) e poi ne prendono gli scalpi (tocco western, riferimento al passato storico dello stesso Paese e alle origini Apache di Aldo Raine). La violenza è diffusa ma, quando tutte le mele marce si riuniscono in un solo cesto (come dice il generale Ed Fenech, così battezzato in onore della bellissima protagonista delle nostre commedie sexy), cioè quando Hitler, Goering, Goebbels e parte dello stato maggiore tedesco si riuniscono in un cinema per una prima, prende forma un piano circoscritto: fare saltare il cesto.
"Tu, mio" (1998) è un libro ambientato nell'Italia degli anni '50. Il giovane protagonista trascorre l'estate sull'Isola di Ischia, pescando con gli adulti, frequentando la comitiva del cugino Daniele qualche anno più grande e conoscendo ragazze forestiere e altri turisti di passaggio. Tra le nuove conoscenze del gruppetto di ragazzi c'è Haia, una ragazza ebrea che non vuole condividere con nessuno il suo passato doloroso e che riconosce in alcuni gesti del

protagonista la gestualità e il carattere di suo padre. Ciò spinge Haia ad aprirsi a lui, rivelandogli i suoi segreti di dolore e guerra, e lui a identificarsi con la causa di lei, degli ebrei sterminati, degli altri perseguitati, degli jugoslavi uccisi dagli italiani nelle terre occupate. I passaggi chiave dell'adolescenza del protagonista si intrecciano alla sua voglia di conoscere la storia per correggerla, ai racconti di guerra e all'odio verso i nazisti che, tolta l'uniforme, vengono a passare le vacanze sull'isola.
Ma che i nazisti si siano spogliati dell'uniforme non importa al protagonista di "Tu, mio", che prende di mira i tedeschi ubriachi che cantano l'inno delle SS in presenza di Haia e del loro gruppo. Né importa al tenente Aldo Raine, che per rendere i suoi nazisti riconoscibili per sempre li marchia in fronte con una cicatrice a forma di svastica. In entrambe le storie si incarna non solo la distanza dai persecutori, ma il bisogno di affrontarli e di farlo con il mezzo più brutale, che non si limiti ad ucciderli ma addirittura si proponga di non lasciarne traccia: lo strumento purificatore dei riti pagani, il "fuoco distruggitore" degli inni fascisti, ritorto contro gli aggressori. Lo stesso fuoco dei forni crematori in cui venivano fatti sparire i corpi dei deportati è, in Erri De Luca come in Tarantino, lo strumento della vendetta. Il giovane pescatore di Ischia si carica il fardello della famiglia sterminata di Haia, si identifica con suo padre e si vendica contro i tedeschi usando la benzina. I Bastardi si introducono nel cinema della prima carichi di armi da fuoco ed esplosivo. Shoshanna, sopravvissuta in incognito e ormai proprietaria del cinema, decide di dare fuoco a trecento pellicole altamente infiammabili bloccando tutti gli spettatori all'interno.
Il fuoco appare come un correttore della storia: uno strumento di morte, ma anche lo strumento dell'oblio. L'obiettivo è sì uccidere i nazisti, ma illudersi di cancellare, con loro, i crimini che hanno commesso, spazzarli via dalla storia, eliminare materialmente e storicamente lo sbaglio commesso appoggiandoli, lasciando che prendessero piede o semplicemente non resistendo. La vendetta operata col fuoco è una sorta di preghiera retroattiva, che esegue contro il male l'operazione esorcistica del dare fuoco, che dovrebbe farlo sparire, e a ciò accompagna il dolore inflitto ai nazisti come vendetta personale. Al centro del moto vendicativo c'è la figura della figlia, unica sopravvissuta alla famiglia, Haia/Shoshanna: il proiezionista Marcel come il piccolo pescatore, figure non esplicitate di amante/compagno, sono complici ed esecutori di una vendetta che non li riguarda direttamente (uno non ha subito persecuzioni in prima persona, l'altro è troppo giovane per ricordare la guerra). Il contrappasso è perfetto: il grido "Feuer!", fuoco, che i nazisti gridavano durante le esecuzioni sommarie è lo stesso che si alza dalla loro pensione data alle fiamme e durante il rogo nel cinema di Shoshanna. Io spero che nello stesso modo siano restituite ai nazisti di tutti i tipi le fiamme dei Bücherverbrennungen, i roghi di libri proibiti che cercarono di distruggere la cultura contraria al regime: il giusto contrappasso sono la lettura e lo studio, di quei libri e della storia (da cui il protagonista di "Tu, mio" è ossessionato e su cui fa domande agli adulti e agli ex-combattenti). La giusta misura con cui dovremmo restituire al nazifascismo il suo "fuoco distruggitore" è proprio quella che fa da sostrato al film di Tarantino come al libro di Erri De Luca: resistere e combattere. Non dimenticare il nazismo e i suoi delitti, ma bruciarlo dalla storia, farlo sparire dalle forme striscianti del presente, dai giudizi qualunquistici e dagli stereotipi, impedire che torni ad incarnarsi.

venerdì 11 dicembre 2015

Il nazismo secondo Tinto Brass: "Salon Kitty"

"Salon Kitty" si basa su una delle fantasie più gettonate nei porno di quart'ordine, quella che ha dato vita ad un vero e proprio filone, il nazi-porno. Il film si apre con la selezione di donne bellissime ma anche intelligenti e soprattutto di comprovata fede nazista per sollazzare gli ufficiali nel Salon Kitty, bordello di Berlino rimesso a punto per l'occasione. L'obiettivo è avere donne ben addestrate e di fiducia pronte a raccogliere informazioni e denunciare eventuali traditori, ma il raffinato sistema spionistico (consolidato per buona misura da microspie e nastri registrati) è ben mascherato. Le splendide e spietate SS devono essere prostitute credibili, perciò durante la selezione devono avere dei rapporti sessuali random in una stanza affollata di soldati e poi con soggetti verso i quali certamente provano una nazistissima repulsione, dagli ebrei agli zingari ai mutilati.
Tra le candidate che superano brillantemente le prove, sacrificando alla missione pudore e gusti personali, c'è Margherita, una giovane di famiglia borghese, devota al Terzo Reich e piena di carattere, capace di immolarsi a una causa e di prendere decisioni radicali. È il modello del perfetto fanatico: non stupida ma indottrinata, tanto ferma da piegare l'intelligenza al credo, abbastanza esaltata da obbedire a qualunque ordine del suo regime e sacrificare il proprio orgoglio (emblematica la scena in cui Wallenberg, il tenente delle SS a capo dell'affare Salon Kitty, durante un normale colloquio in salotto la costringe su quattro zampe).






Sì, il film prende le mosse dalla solita zozzeria vintage, ma non si riduce a questo. Tinto Brass non manca di unire l'utile al dilettevole (rappresentato dagli splendidi nudi femminili e dalla trama che scivola destramente verso il film di spionaggio). In questo caso (come in "Paprika", film di denuncia contro la legge Merlin, o nel leggero e colorato "Monella", che prende di mira la rigidità maschilista e ipocrita della società, esaltando di contro l'emancipazione femminile), l'"utile" è rappresentato dalla non velata e non banale analisi politica e sociale. Tinto Brass suggerisce una sua lettura del fenomeno nazista molto vicina a quella offerta da Bertolucci nel film del 1970 "Il conformista", che rielabora e accentua alcuni aspetti dell'omonimo romanzo di Moravia. Un aspetto comune al romanzo del 1951 e al film di Bertolucci (vicino a "Salon Kitty" anche per la rappresentazione simmetrica, grandiosa e immobile degli interni dei luoghi di potere) è la correlazione tra fede nazi-fascista e un orientamento omosessuale latente e rifiutato. Marcello, il protagonista-conformista, è un criptogay e cerca di sfuggire alla sua condizione di avvertita "anormalità" nascondendosi in un culto di massa, che lo confonda in mezzo agli altri, e soprattutto in un culto della virilità, del machismo, del gallismo. Slavoj Žižek, in un libro per altri versi deludente, fa riferimento alle allusioni omosessuali che formano il sostrato goliardico al cameratismo dei soldati, controbilanciato da un'esplicita quanto violenta omofobia. Anche Tinto Brass, pur senza farne un cardine di "Salon Kitty", sfiora la tematica: i camerati che vediamo nel suo film non si limitano a condividere spazi e attività fisiche, esercitandosi nella scherma o beandosi romanamente nella sauna. Quello che vediamo è un ricorrente affollarsi di nudi maschili nella stessa stanza, anche laddove l'economia del racconto non lo richiederebbe: paradossalmente, i genitali maschili non sono molto esposti nelle scene che vedono un singolo uomo alle prese con una donna, nel bordello o altrove (più volte vediamo Margherita coinvolta in attività sessuali che vedono l'uomo quasi completamente vestito), ma sono numerosi ed evidenti nelle scene di gruppo, dove solo uomini nudi o seminudi riempiono un ambiente cameratesco da cui le donne sono escluse o in cui sono ospitate marginalmente, una sorta di androceo sormontato dalle aquile del Reich e dal mito fallico.
A questa latente omosessualità maschile abbinata all'immancabile omofobia militaresca, fa ovviamente da complemento la misoginia: la figura femminile disprezzata, significativamente, non è la prostituta ma la moglie. Il tenente Wallenberg umilia Margherita nell'ambito sessuale ma mostra verso di lei una sorta di rispetto cameratesco, proprio in quanto lei stessa SS, mentre tratta la moglie come una sguattera o perfino come un cane (la donna deve servirlo e poi allontanarsi senza fiatare, viene cacciata via diverse volte e con modi bruschi, nessuno risponde ai suoi saluti, è spesso costretta in ginocchio o in posizione china e sottomessa). Anche qui è possibile un richiamo ad un altro film italiano, che pur con ben altri mezzi espressivi esplora in modo delicato e approfondito questa ambiguità della società nazi-fascista, che spinge l'uomo verso la donna vista come oggetto sessuale, contemporaneamente reprimendo e umiliando la moglie, relegata a massaia e fattrice, lo splendido "Una giornata particolare" di Ettore Scola.
A più riprese e in diverse forme, compresa dunque quella della gerarchizzazione sessuata della famiglia, si presenta la tematica del potere. Al riguardo è notevole il cammeo di Aldo Valletti, il Presidente di "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini: in questa pellicola, che precede di poco l'uscita di "Salon Kitty", il Presidente è tra i quattro potenti e perversi sui cui vizi si impernia tutta la narrazione, che pone continuamente in relazione l'(ab)uso sessuale e l'esercizio del proprio potere. Potere che, come rivela Wallenberg nella confessione che Margherita riesce a strappargli, è fondato su un credo strumentale (quello del Terzo Reich): gli ufficiali, i superiori, i vertici della piramide non credono a ciò che propagandano, ma ci crede in buona fede il popolo, e proprio questa devozione al nazionalsocialismo li rende utili, ubbidienti, sudditi perfetti e relativamente contenti.

Anche sotto l'aspetto formale "Salon Kitty" non manca di dettagli curati e notevoli. Ossessivo è l'uso degli specchi: molte scene raffigurano gruppi e coreografie, e quasi tutte le altre riproducono artificialmente l'effetto comitiva moltiplicando la figura dei pochi protagonisti (Margherita che si aggira seminuda nella camera da letto non si limita a riflettersi in uno specchio, ma è moltiplicata cinque-sei volte). Quasi sempre lo specchio non è uno ma sono molti, tutti centrati sullo stesso oggetto-soggetto, sempre un corpo umano, che si trova riprodotto al centro dell'inquadratura e anche nelle periferie, incornicia se stesso. È pressoché assente lo specchio come strumento e simbolo di dualità, contrapposizione e doppio, perché l'immagine riflessa lo è sempre più volte: si crea contemporaneamente un effetto-folla e un'attenzione smodata, morbosa su un singolo soggetto (spesso Margherita) che riempie di sé praticamente tutta la stanza. Da un lato, cogliamo il solito vezzo voyeuristico di Tinto Brass, amplificato dall'immagine riflessa, e dall'altro lato indoviniamo dei riferimenti psicoanalitici o, ancora, all'uomo-massa perfetto per il regime: Margherita, nazista ideale ed efficiente, è uguale a tantissime altre Margherita che la circondano senza distinguersi in alcun modo. Agostino Gemelli scriveva: 


«la miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l'assenza di ogni qualità: l'essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e all'assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della macchina bellica».

Torna così, ancora, l'uomo-folla che si sforza di essere il Conformista, l'Uomo Qualunque che nel partito nato nel 1946 raccoglie l'eredità più grossolana del fascismo (che ancora oggi ci perseguita nelle varie forme del populismo di destra e del qualunquismo "né di destra né di sinistra"), l'individuo-massa di Ortega y Gasset che "delega in bianco" il suo potere-pensiero, obbedendo e sottomettendosi ad un potere forte e rassicurante, perdendo la propria unicità e individualità. Le tante Margherita allo specchio sono i tanti visi anonimi della folla adorante, in cui Marcello Clerici de Il Conformista brama di perdersi, i tanti anonimi "Urrà" che si alzavano nelle adunate oceaniche. Le SS-prostitute di "Salon Kitty" sono i soldati perfetti di Agostino Gemelli, virtuose perché senza virtù, la cui qualità migliore è rappresentata da fede cieca, abnegazione, volontà di lasciarsi manipolare. Non a caso è proprio Margherita, la donna più forte di carattere e di più acuta intelligenza, a rompere l'incantesimo: innamorandosi di un traditore diventa diversa dalle altre, rompe la magia della folla, torna ad essere un singolo individuo chiamato in prima persona a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni e azioni. Nel finale, brinda con Kitty alla caduta del Reich.



  • A chi volesse approfondire suggeriamo: "Bernardo Bertolucci. Il conformista", Franco Prono, Lindau (1998), libro che analizza il film in modo molto dettagliato, prestando attenzione anche ai molti rimandi psicanalitici.
  • Il libro a cui faccio riferimento è "Il segreto sessuale della Chiesa", Slavoj Žižek, Mimesis Edizioni (2010).
  • La citazione di Agostino Gemelli è riportata da Angelo Del Boca nel libro "Italiani bravi gente?", Neri Pozza Editore (2005), nel capitolo sulle colpe di Cadorna.

sabato 5 dicembre 2015

Le condizioni materiali della vita: "Blue Jasmine"


Due sorelle, Ginger e Janet/Jasmine: pur provenendo entrambe dallo stesso retroterra sociale e familiare, si ritrovano da adulte ad appartenere a due mondi enormemente distanti. Ginger, bassina e mora, vestita in modo casual e un tantino cafone, fa la cassiera in un supermercato di San Francisco. Jasmine, alta e bionda, estremamente elegante e dotata di accessori costosi, è la moglie di un pezzo grosso della finanza. La rovina della famiglia di Jasmine la spinge verso la sorella umile e salariata, in cerca di ospitalità e aiuto economico. Ormai vedova e povera, reduce da un grave esaurimento nervoso che ancora la disturba, deve reinventarsi una vita, preferibilmente non umile, e quasi ci riesce. Quasi.
In "Blue Jasmine", un Woody Allen reduce dallo scialbo tentativo di ritrarre le classi subalterne e la bellezza della vita semplice e quotidiana nel tremendo "To Rome with Love", torna a fare ciò che sa fare meglio: raccontare le vite patinate ma spesso meschine della borghesia. Rispetto per esempio a "Match Point", vediamo nel film interpretato da Cate Blanchett una classe alta meno stereotipata e vista con occhio meno benevolo. Mentre nel film del 2005 l'alta borghesia è formata di individui goderecci ma tutto sommato generosi, immancabilmente vittime della cupidigia dei più poveri (qualcosa mi ricorda "Il capitale umano"...), in "Blue Jasmine" è proprio dalla famiglia di Janet/Jasmine che si dipana la rovina, anche per la sorella salariata e il marito operaio. Infatti, la bionda Janet è vedova perché il suo geniale marito si è impiccato in cella, luogo in cui si trovava dopo un'indagine dell'FBI, che lo aveva rivelato come un ladro e un truffatore, capace di grandi donazioni e filantropia ma con soldi sottratti senza scrupoli anche a piccoli investitori. L'aspetto più doloroso della vicenda è che l'umile sorella Ginger aveva avuto, con suo marito, la chance di elevarsi dalla sua condizione sociale: avevano vinto un'enorme somma e, con fraterna fiducia, l'avevano affidata agli investimenti del cognato. Così, la famiglia più ricca ha continuato ad arricchirsi a discapito della più umile, che ha visto sfumare l'occasione di una vita, e tutto ciò nonostante il legame tra le due donne. Ginger non ne fa una colpa alla sorella, perché crede alla versione di lei: il ladro era lui, lei non sapeva nulla. Ma Janet/Jasmine è un personaggio "fasullo" (come viene a più riprese definita nel film stesso) fin dal nome, e la pervasività della sua falsità esploderà con tutte le sue conseguenze (e, retrospettivamente, rivelerà dei retroscena occulti) solo verso il finale.
Una scena mi è risultata un po' plastificata, un po' "film di Natale", ed è quella in cui Ginger e Chili, dopo la riconciliazione, giocano come bambini con un pezzo di pizza, mentre Janet si avvia col trucco colato e gli psicofarmaci in mano verso l'ultima tappa della rovina. Ad uno sguardo frettoloso, quella scena può trasmettere uno pseudo-significato, cioè un vuoto di significato, un luogo comune buono solo a ripulire la coscienza delle classi alte e a mantenere saldo il giogo sulle classi subalterne: quando si è più poveri si è più felici. Onestamente, non ritengo Woody Allen capace di una tale banalità e di una tale malafede, e la mia lettura mi pare dimostrata dal percorso compiuto dalla tragedia attraverso le vite delle due protagoniste: anche all'inizio del film Ginger era povera, e lo è ancor di più dopo essere stata truffata dal cognato. Viceversa, Janet/Jasmine è infelice sia all'apice della sua ricchezza, quando i lussi e la non-necessità di lavorare non bastano a risarcirla dei continui tradimenti del marito, sia una volta disintegrato il suo patrimonio. In realtà, la correlazione degli avvenimenti con la felicità in "Blue Jasmine" segue la traccia altrettanto borghese ma molto meno perversa del "sentimento": le due donne riescono a ricavarsi un pezzetto di felicità solo nell'illusione o nella concreta realizzazione dell'armonia di coppia e/o familiare. Il fattore economico è conteggiato per lo più come simbolo di altro, degli abiti casual in luogo delle borse Louis Vuitton, del lavoro come segretaria da un dentista piuttosto che quello di antropologa o di arredatrice. Ancora una volta, non è la ricchezza a fare la felicità né l'infelicità, ma a essere la spia visibile di un atteggiamento interiore della protagonista, delle sue ambizioni frustrate, del suo attaccamento ai beni materiali ma soprattutto ad una più alta concezione di sé. In un dialogo bellissimo spiega per quale ragione odiava l'idea di lavorare come commessa in un negozio di scarpe: non è tanto il basso stipendio rispetto alle rendite astronomiche a cui l'aveva abituata il marito truffatore, quanto l'umiliazione di dover servire donne dell'alta società che fino al giorno prima la invitavano ai loro ricevimenti. Umiliazione a cui Ginger, nata e rimasta in una classe sociale che la costringe a vendere il proprio lavoro per vivere, non avrebbe potuto sottrarsi. È questo che Jasmine non riesce a superare: non tanto la privazione materiale della ricchezza (vende le sue pellicce e i suoi gioielli) quanto la sofferenza mai sperimentata prima dell'impotenza sociale, dell'improvvisa povertà che di colpo le ha tolto la possibilità di scegliere che professione praticare, in che luogo abitare, come trascorrere il suo tempo. Il legame tra condizioni materiali della vita e risultati "immateriali" (frequentazioni, attività, spostamenti, svaghi) è mostrato con forza ma altrettanta attenzione è dedicata alla lotta interiore di Janet contro Jasmine, della donna contro il personaggio che ha fatto di sé, con il suo orgoglio e il suo calcolo, la sua pretesa di superiorità e la sua superba incapacità di ammettere la sconfitta.

giovedì 1 ottobre 2015

Ti racconto... il Giappone in 10 film

Giappone: pretesa davvero ambiziosa raccontarlo in soli dieci film. L'argomento è inesauribile e si può esplorarlo in mille direzioni. La lista di film che suggeriamo non potrebbe in nessun caso essere esauriente. Abbiamo quindi scelto alcuni film tra i più significativi e diversi, per epoca e per genere: ognuno riguarda una tappa storica del Paese del Sol Levante, un aspetto della sua cultura o un punto di vista sulla sua società.


1. Figlio unico (1936)



È uno dei maggiori classici del cinema giapponese, opera di Yasujiro Ozu, regista raffinato quanto prolifico. Come molti altri film di Ozu, Figlio unico offre uno spaccato di vita quotidiana che permetta di entrare educatamente all'interno di una famiglia giapponese per coglierne gli equilibri e i meccanismi più intimi. Il perno della narrazione è (come in Tarda primavera, Fiori d'equinozio e altri film del regista) la relazione genitori-figli. In particolare, protagonisti sono in questo caso la madre vedova e il suo unico figlio, che a causa delle misere condizioni familiari dovrebbe interrompere gli studi e fare propria la dura vita dei campi o della fabbrica. Il bambino è però molto studioso e capace e il suo maestro non sopporta che gli si precluda una maggiore istruzione soltanto a causa della sua bassa estrazione e della sua disgraziata situazione familiare: grazie alla sua intercessione (e a un pizzico di inganno), la madre accetta la sfida di nuovi sacrifici e di un lavoro ancor più duro per permettere al bambino di proseguire gli studi. La diligenza del bambino e i suoi ottimi risultati sembrano promettere un futuro roseo, che valga la pena dei tanti sacrifici affrontati. Confidando in una mobilità sociale che premi la fatica e gli sforzi, e che traduca la maggiore istruzione in un buon lavoro, la madre aiuta il figlio a trasferirsi a Tokyo vendendo i suoi ultimi beni. Lì, il figlio si ricava la buona posizione sperata e meritata, o almeno così crede la madre, fino a quando non si reca in città a trovarlo e scopre il tenero inganno con cui il figlio voleva proteggerla dal proprio fallimento. Madre e figlio devono arrendersi ad una società rigida che non ha pietà dei sacrifici né dell'impegno, che non premia le ambizioni, che frustra e violenta i desideri, e ritaglia un margine sottile per la consolazione negli affetti e nella solidarietà tra umili. Un film struggente simile per certi versi al nostrano Ladri di biciclette, che racconta la società giapponese degli anni '30 e in realtà anche la società occidentale di oggi.



2. Rashomon (1950) 




Film ampiamente apprezzato in Occidente, è opera di uno dei registi giapponesi più famosi, Akira Kurosawa (I sette samurai, Il trono di sangue, Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure). Rashomon ha origini letterarie e un solido impianto narrativo, ma non si esaurisce in una trama lineare: al contrario, la trovata geniale del film, quella che gli conferisce il suo spessore filosofico ed ermeneutico, risiede proprio nell'assenza di una narrazione univoca. Lo stesso episodio è raccontato da tre personaggi diversi, chiamati a risponderne nel tribunale dello spettacolo, inginocchiati in uno scenario surreale col viso rivolto allo spettatore, e ognuno ne dà una versione diversa. La speranza nell'uomo salva in extremis il film dal completo nichilismo, e ciò che ne rimane è un senso acuto ma non disperato di fragilità e di piccolezza, la percezione visiva della mutevolezza della vita e della soggettività della sua interpretazione. Travolgente l'interpretazione di Toshiro Mifune, che con questo film si affaccia all'Occidente e diventa uno dei più famosi attori asiatici. Infine, un'attenzione particolare alla condizione della donna nel Giappone tradizionale, in cui perfino subire senza colpe uno stupro rende oggetto di biasimo e disprezzo.



3. I racconti della luna pallida d'agosto (1953) 





Il film di Kenji Mizoguchi non è solo un grande classico del cinema giapponese, ma anche un capolavoro indiscusso del genere fantastico. Ispirato a due monogatari intrecciati in un unico racconto delle travagliate vite dei protagonisti, il film incarna lo spirito del Giappone degli anni '50: da un lato, il ricordo fresco della tragedia della guerra, che si traduce in un senso di costante incertezza economica (il vasaio che si affanna a produrre troppi vasi e finisce col perderli e avere un enorme danno; la moglie sola che viene ridotta a prostituta, bisognosa e disonorata); dall'altro, la spinta irresistibile a rifugiarsi nel fantastico e soprattutto nel passato (si tratta di un film in costume ambientato nel XVI secolo), in un'epoca che non aveva conosciuto l'orrore dell'arma atomica né la disfatta dell'esercito imperiale, un passato insieme grandioso e rassicurante, espresso anche attraverso la magnificenza e l'accuratezza di ambienti, costumi e trucco.


4. Una tomba per le lucciole (1988)




Ottimo prodotto dello Studio Ghibli firmato Isao Takahata (regista del recente e ben accolto La storia della principessa splendente). È poco meno di un documentario sul Giappone della Seconda Guerra Mondiale, o meglio molto di più: alla rude rappresentazione di bombardamenti, ustioni e miseria accompagna la struggente poesia dell'amore fraterno provato dalla disgrazia, dalla voglia caparbia di sopravvivere, dal disperato bisogno di continuare a giocare anche tra le piaghe e la fame. Seita e la sua sorellina Setsuko, figli di un ufficiale della Marina Imperiale Giapponese e affidati alle cure della madre, si ritrovano presto travolti dalla guerra che devasta la loro casa e ampie zone della loro città, costringendoli a rifugiarsi da una zia meschina che approfitta di loro invece di aiutarli. Si ritrovano infine completamente soli contro l'inedia e le malattie, il bisogno di arrangiarsi e perfino di rubare, la violenza della società e dei bisogni più elementari. Infine, mentre le figlie dei ricchi rientrano a guerra finita nelle loro dimore di campagna, intatte e gravide di felici ricordi infantili, Seita è ridotto a uno straccione solo e disperato, privato dell'orgoglio nazionale che lo faceva fiero di suo padre e del suo Paese, straziato dalla colpa di non aver saputo proteggere la sua famiglia. È un film che non risparmia crudeltà e verità dolorose, nell'immagine come nel significato, dalla devastazione della guerra che nulla ha di onorevole al suo peso che ricade sempre, inevitabilmente, sul popolo innocente e sui soldati costretti al sacrificio.

5. Ecco l'impero dei sensi (1976)



È un film ispirato ad un episodio di cronaca nera che scosse il Giappone degli anni '30 e che vide una donna di nome Abe uccidere ed evirare il suo amante. Il film fu oggetto di feroce censura, in Italia come altrove, per via del suo carattere "pornografico": si mostrano più volte le parti intime dei protagonisti con una nonchalance quasi sconosciuta al cinema di quegli anni (quattro anni prima Ultimo tango a Parigi di Bertolucci veniva sequestrato e condannato alla distruzione per molto meno), oltre a fellatio e altre pratiche sessuali molto esplicite. A imperare sono, naturalmente, i sensi: a livello narrativo, trionfano sulla pudicizia, sulle buone maniere e sull'opportunità sociale, sulla razionalità e la prudenza, perfino sulla legge nel loro condurre infine alla mutilazione e all'omicidio; a livello "materiale", hanno il sopravvento sulla narrazione, il tatto e l'olfatto sono continuamente al centro della scena, l'udito è stimolato continuamente dai suoni e dalle musiche tradizionali più che dalle battute, fortemente sensuali e intensi sono anche i colori degli abiti e degli interni, fino al vivido rosso sangue che suggella il finale. Un film strano, materico, a tratti oscuro.


6. Lady Snowblood (1973)





Questo film si inserisce a pieno titolo nella nostra lista: oltre ad essere qualitativamente curato e stilisticamente ispirato, è pienamente rappresentativo del genere che tanto in profondità e in estensione ha influenzato il cinema giapponese e, attraverso di esso, quello occidentale. Revenge movie originale e per altri aspetti esemplare, tornato alla ribalta in Occidente (non esisteva né ancora esiste una versione doppiata in italiano) grazie alla mediazione di Kill Bill, racconta la storia di una protagonista femminile votata alla vendetta come la Sposa di Tarantino e O-Ren Ishi, personaggio che la ricalca finemente. Sorprendentemente moderno, movimentato senza essere banale e drammatico senza smarrirsi nello splatter.


7. Hana-Bi - Fiori di fuoco (1997)




I titoli di testa, fioriti di decorazioni naïf fatte a mano e variopinte, introducono un film che parla di yakuza e criminalità. L'ossimoro è palese e incarnato nello stesso protagonista: ex-poliziotto rude e tutt'altro che restio ad usare la violenza delle armi da fuoco, ma contemporaneamente tenero marito straziato dalla malattia della moglie e spirito sensibile che crea fiori di carta colorata. Lo stile inconfondibile di Takeshi Kitano, che nel film L'estate di Kikujiro dà luogo ad effetti buffi e giocosi da manga, in Hana-Bi - Fiori di fuoco produce sequenze asciutte e serie, per un film drammatico che si aggiudica il Leone d'oro a Venezia.



8. Departures (2008)



Vincitore del Premio Oscar nel 2008, è un film drammatico non completamente privo di toni da commedia, a cominciare dall'equivoco per cui un violoncellista ormai disoccupato cerca lavoro presso un'agenzia nella convinzione che si occupi di viaggi. In realtà, si ritrova presto a fare un mestiere simile al tanatoesteta, per cui in realtà non esiste un corrispettivo perfetto in italiano: più che curare l'aspetto dei morti, lavarli e truccarli, l'okuribito è propriamente colui che "accompagna alla partenza" il defunto attraverso un preciso rituale. È un lavoro solenne e commovente, che il protagonista impara ad effettuare con bravura e sentimento e soprattutto impara ad amare. Tuttavia, con la sua nuova attività viene investito dal tabù, un po' come i nostri becchini che vengono salutati con gesti scaramantici e scongiuri dai compaesani più indelicati.
Un film leggero e curioso che mostra allo spettatore occidentale aspetti culturali e rituali poco conosciuti del Giappone contemporaneo.



9. Si alza il vento (2013)



L'ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki riceve il Premio Oscar come miglior film d'animazione, sbanca al botteghino e soddisfa la critica. È un canto del cigno invidiabile e meritato, che lascia però l'amaro in bocca, destinato com'è a chiudere un'epoca dello Studio Ghibli. Riprende alcuni dei tratti tipici del maestro giapponese, in particolare l'amore per le altezze e l'aeronautica che già aveva avuto espressione, per esempio, nel meraviglioso e significativo Porco Rosso. Racconta la storia di Jiro Horikoshi, personaggio realmente vissuto e già raccontato in un manga, progettista di aerei che fin da bambino fu ispirato dall'italiano Giovanni Battista Caproni. Si alza il vento racconta la sua vita, dall'infanzia segnata dalla miopia al periodo degli studi fino al matrimonio, con la delicatezza tipica del maestro Miyazaki e una cura estrema per i fondali, le parti meccaniche, i gesti amorevoli, gli interni che richiamano il cinema domestico di Ozu. Sullo sfondo, il Giappone tra le due guerre, la vita nei sanatori e la tubercolosi, il devastante terremoto del Kanto del 1923. Introducono e battezzano l'opera i potenti versi di Paul Valéry: «Si alza il vento!... bisogna tentare di vivere.»



10. Cold Fish (2010) 




Sion Sono, quello che un libro recentemente pubblicato da Caratteri Mobili chiama Il signore del caos, in Cold Fish condensa le contraddizioni della società capitalista contemporanea (non a caso, il film si apre con un carrello della spesa che viene riempito in modo convulso di pesce surgelato), l'alienazione che si spinge ben oltre il limite dello squilibrio, la violenza insensata, l'oscurità dei rituali che invece di esorcizzare il male sembrano catalizzarlo, dall'uso del forno a microonde (simbolo feticistico del consumo quotidiano e della vita familiare preconfezionata) all'affollarsi macabro e osceno di statue e simboli sacri nel luogo sconsacrato in cui si versano fiumi di sangue e si consumano vendette dementi. Un film dal ritmo serrato, suggestivo ed inquietante, imprevedibile e cruento.

martedì 29 settembre 2015

"Non permettere più che questo avvenga": satira, dissenso e opposizione

C'è un Viandante Male Informato che imbocca una stradina secondaria per raggiungere il mare. Mentre percorre a passo d'uomo (per non stressare le sospensioni) la via sterrata in mezzo agli uliveti, entra nel raggio visivo di un Bifolco Cazzaro. Il Bifolco Cazzaro guarda malevolo la vettura, presentendo chissà quali cattive intenzioni del guidatore. In particolare, è preoccupato dagli eventuali futuri nocumenti che potrebbero derivargli dal passaggio del Viandante Male Informato per quella stradina sterrata che scorre in prossimità dei suoi uliveti. Al che, per prevenire qualsivoglia danno, il Bifolco Cazzaro si mette a gambe larghe in mezzo alla via e brandisce il forcone verso la vettura. Il Viandante Male Informato inchioda. Abbassa il finestrino e domanda lumi. Il Bifolco Cazzaro sbraita: ma non sa il Viandante Male Informato che questa è una stradina privata? Onestamente no. Anche perché non è vero. E ancora, il Bifolco Cazzaro: non sa il Viandante Male Informato che chi passa senza autorizzazione da questa strada rischia una multa di millemila euro, cinque anni di galera e venti frustate? Ancora, il Viandante Male Informato non lo sa. E in effetti dubita anche che sia vero: segnali di proprietà privata non ne ha visti, divieti di transito neppure, passaggi a livello ringhiere recinzioni steccati reti palizzate fili spinati nemmeno. Non sapeva che passare di lì fosse proibito e soprattutto non sapeva che la pena commisurata fosse quel popò di pena annunciata dal Bifolco Cazzaro. Ma, dal momento che sa di essere Male Informato, il Viandante tentenna. Anzi, chiede pure scusa. Ingrana la retro e sparisce all'orizzonte in un nugolo di polvere, con gran soddisfazione del Bifolco Cazzaro che torna placido a badare alle proprie olive.

Ecco, un fatto del genere è successo alla Rai e a Fedele Confalonieri.

Il 16 novembre 2003 va in onda su RAI 3 la prima puntata di "Raiot - Armi di distrazione di massa", programma di satira condotto da Sabina Guzzanti. In questa prima puntata, la Guzzanti fa qualcosa che in pochi avevano avuto l'ardire di fare: tocca questioni realmente spinose per il capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, invece di inserirsi nel rassicurante flusso della satira di regime, che non interroga realmente il personaggio ma lo canzona simpaticamente, umanizza e perfino un po' lusinga, tra una battuta sull'altezza e un'allusione alla frenetica attività sessuale.
In Italia il capo del governo controlla la programmazione della tv di Stato. All'epoca dei fatti, Silvio Berlusconi però non era solo il capo del governo, era anche il padrone di Mediaset, azienda che aveva e ha il controllo di tre reti televisive private di livello nazionale. Traducendo in pratica: se il proprietario delle reti televisive private è al contempo capo del governo, controlla l'intero spettro della televisione italiana.

Tornando a Raiot, dopo la messa in onda della prima puntata il programma viene sospeso dal Cda della Rai. Il motivo? Mediaset (nella persona di Fedele Confalonieri) aveva incassato malvolentieri gli espliciti riferimenti della Guzzanti ad alcune attività illecite di Berlusconi e conseguentemente querelato la Rai per diffamazione, chiedendo poco meno della testa della Guzzanti: 20 milioni di euro di danni. La Rai senza batter ciglio (e sopratutto senza verificare se le accuse siano fondate) si sottomette al volere pretenzioso di Mediaset.
Il Presidente del Consiglio non è sempre ricorso a simili sotterfugi per interposta persona al fine di censurare le voci a lui sgradite. Pochi mesi prima della sospensione di Raiot, mentre si trovava a Sofia, aveva sentenziato il cosiddetto editto Bulgaro:

«L'uso che Biagi... Come si chiama quell'altro? Santoro... Ma l'altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.»

Con l'editto Bulgaro sono scomparsi gli ultimi spiragli di libera informazione sulla tv di Stato. Come fa notare la Guzzanti nel suo documentario "Viva Zapatero", le questioni politiche vengono affidate a giornalisti che in realtà non fanno domande e a Bruno Vespa (che rientra in una categoria tutta sua), mentre gli approfondimenti televisivi vengono dedicati alla cronaca nera, al gossip, alla madonna che piange sangue e alle ricette di cucina.

Tipico programma di approfondimento politico post-editto bulgaro.

Flashback.

Negli anni Ottanta Silvio Berlusconi era solo un povero imprenditore milionario, molto triste perché la magistratura voleva impedire che le sue reti televisive trasmettessero a livello nazionale, basando il proprio diniego sull'insana pretesa del monopolio di Stato. Il povero imprenditore milionario non era ancora entrato in politica, e l'unico modo per eliminare quell'illiberale invenzione comunista era affidarsi al fraterno amico Bettino Craxi (all'epoca Presidente del Consiglio). Bettino non perse tempo ed emanò i cosiddetti (e cosiffatti) "decreti Berlusconi".
Faziosamente chiamati "Berlusconi" ma ovviamente non correlati in alcun modo a Silvio Berlusconi, tali decreti permettevano per la prima volta in Italia ai privati di far trasmettere le proprie reti televisive a livello nazionale. Il monopolio soccombe e nasce il libero mercato televisivo. Libero davvero, perché sottrae i maggiori mass media all'invasiva e pervasiva autorità dello Stato, dando in cambio voce a chiunque. O almeno a chiunque sia così ricco da potersi permettere almeno una rete privata, tanto che ad oggi tra i beneficiari dei suddetti decreti non si annoverano ancora né una casalinga di Treviso, né un bracciante lucano, né un pastore abruzzese.

Ritorno al presente.

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento di 20 milioni di euro, la procura di Milano giudica le accuse della Mediaset infondate perché quanto detto durante la puntata di Raiot non era diffamatorio ma rispecchiava pienamente la realtà. Gli accusatori sono rimasti contenti lo stesso, perché in fin dei conti il Bifolco Cazzaro non avrebbe tratto una godimento particolare nell'infliggere venti frustate al Viandante Male Informato: gli bastava che nessuno percorresse la strada che costeggiava il suo uliveto. Chiusa la trasmissione, che la pretesa del risarcimento fosse infondata non importa più a nessuno, dal momento che evidentemente esso non era il reale obiettivo, quanto un pretesto. Non ci si scusa con la Guzzanti, non si riapre la trasmissione, semmai si estrae dal cilindro qualche altro motivo per scagliarsi contro la comica: la sua non sarà diffamazione ma non è neanche satira. Satira, per queste illustre menti, sarà quella di Antonio Ricci che ammicca benevolmente al priapico padrone, o meglio ancora la "satira di centro-destra" che Luca e Paolo hanno senza vergogna esibito a Sanremo qualche edizione fa, come se ce ne fosse un gran bisogno. Epurata la televisione dalle voci sgradevoli rimane soltanto il coro belante a cui "Il terzo segreto di satira" dedicava, dal più dimesso e casalingo palco di Youtube, uno dei primi video:

«Questa è satira che piace a me,
piace molto al centro-destra,
fa felice pure il re.»