domenica 31 maggio 2015

"Il mondo tardoborghese" di Nadine Gordimer

«Dissi: "I ragazzi potrebbero fare delle chiacchiere... ma tu sai che lui lottava per le cose giuste, anche se il modo, forse, era sbagliato.
Non ce l'ha fatta, ma almeno non si è limitato a mangiare e dormire e compiacersi di se stesso. Non voleva lasciare così com'erano le cose sbagliate. Se ha fallito, be'... è stato sempre meglio che non tentare affatto. Ci sono..." - stavo per dire "dei padri", ma non volevo metterlo contro i rampolli delle ricche famiglie degli azionisti - "ci sono uomini che vivono bene e hanno successo nel mondo così com'è, ma non hanno nemmeno il coraggio di sbagliare per cercare di cambiarlo."»

Scritto nel 1966 mentre veniva accoltellato il primo ministro sudafricano Verwoerd (tra i principali ideologi dell'apartheid),"Il mondo tardoborghese" venne improvvisamente in mente all'editoria italiana solo nel 1989. I tempi non erano più quelli roventi, pregni di violenza disorganizzata e di rigorosa ideologia marxista in cui Nadine Gordimer aveva scritto il breve e raffinato romanzo; il muro era lì per cadere e gli entusiasmi terzomondisti d'Europa erano passati un po' di moda, ma l'apartheid esisteva ancora. Le preoccupazioni sul futuro e sui diritti della popolazione nera del Sudafrica erano ancora vive e necessarie. Così con ritardo in Italia si affacciò un romanzo vecchio e ancora nuovo, ancora pienamente attuale, anche se impregnato di quell'odore di esplosivo e clandestinità, quell'odore un po' da Anni di Piombo che anche il cittadino europeo ricorda bene.

Max entra nel libro di traverso, in sottofondo, come in filigrana: solo nei ricordi di sua moglie Liz, che nel corso di una giornata non molto diversa da tante altre (l'unica giornata in cui si svolge il romanzo intero) ne scopre il suicidio e deve comunicarne la notizia al figlioletto. Max si è lanciato in acqua con la sua automobile, portando con sé un malloppo di carte ormai illeggibili. Nessuno sembra porsi domande sul perché del suo gesto, ma Liz ripensa (a beneficio del lettore) al perché di tutta la vita che ha preceduto la decisione fatale.

«Max non era in grado di capire i bisogni di nessuno tranne i suoi. Mia madre una volta chiamò questa sua incapacità "orribile egoismo", mentre non era che l'impronta indelebile del suo ambiente, che lei tanto ammirava e dal quale lo vedeva allontanarsi come un folle.»

Max apparteneva a quel mondo tardoborghese capace di suscitare nei proprio giovani membri un insieme di noia e ansia, di vittimismo e di ribellione. Fin dalla scelta della facoltà universitaria (lettere, una scelta anticonformistica e "idealistica" rispetto alle solite scelte dei rampolli suoi pari, economia e commercio o giurisprudenza), ha cercato di svincolarsi da quel mondo artificioso per buttarsi tra i lavoratori, nelle township abitate da neri e indiani, nei treni superaffollati, 
«là dove batteva il cuore delle cose». Questa «impazienza febbrile» lo ha portato a partecipare ai lavori dell'ANC, a muoversi in clandestinità insieme a comunisti, antirazzisti e africani in lotta per l'emancipazione della popolazione nera. Max ha cercato in qualche modo di scardinare dall'interno il prestigio del potere boero (suo padre era un membro del parlamento, ovviamente di un partito conservatore) e questa sua tensione ideale ha imboccato le diverse vie clandestine che l'ingiusta società dell'apartheid gli offriva. Eppure, Liz sembra suggerirci con il suo distacco lucido e con una punta di biasimo benevolo, Max non lottava nel modo giusto. Ha messo in imbarazzo amici e parenti in occasione del matrimonio della sorella pronunciando, al posto del brindisi di rito, un'arringa contro la sclerosi morale e l'apatia sociale; ha intorbidito il piano riproduttivo familiare, mettendo incinta e poi sposando una ragazza di classe sociale inferiore, per poi andare a vivere con lei in quartieri poveri, barcamenandosi tra lavori saltuari e umili che garantissero la minima sussistenza; ma lo smacco più solido inflitto alla famiglia da parte di Max, è stato l'andare in carcere.
Max è diventato un bombarolo (senza per altro riuscire a fare esplodere nulla): ha scelto la via più distruttiva della lotta, la più rabbiosa. Ha lasciato all'amico ideologo l'elaborazione teorica, agli altri compagni la lotta politica: quello di cui voleva occuparsi lui era la distruzione. Distruzione del potere della classe a cui apparteneva, che gli aveva dato i natali e la forma: la lotta di Max, allora, prima e più di essere lotta per la giustizia e l'uguaglianza sociale, era una repressione spietata di quanto odiava in se stesso, di tutti quei segni di potere e privilegio di cui era portatore e vittima. La sua era una lotta omicida non per gli altri, ma contro se stesso, fino al collasso finale. Il percorso di Max assomiglia alla parabola discendente e implosiva della sua classe sociale, a quell'ambiente borghese cui il suffisso tardo- assegna l'avviamento ad un epilogo: epilogo dei miti perbenisti della classe (matrimonio con un buon partito, buona posizione lavorativa, lusso e immagine curata, impegno politico a difesa degli antichi privilegi e delle disuguaglianze sociali) ma anche della percezione di se stessa come classe vincente (il fallimento dei Van der Staendt nell'educazione del figlio, quello dei partiti nazionalisti e dei fautori dell'apartheid destinata all'abolizione).
Max è la serpe che la classe borghese portava nel proprio seno, ma è anche così disperatamente insofferente da non riuscire a rovesciare quel mondo contro cui impegna tutte le proprie forze fino all'estremo sacrificio (l'estrema sineddoche: immolare l'unica cosa su cui ha il controllo, il proprio corpo vivente, e immolare in esso il tutto di cui fa parte, la classe di appartenenza intera). È capace solo di mettere in atto la pars destruens del processo, che può essere propedeutica al cambiamento ma da sola non edifica un mondo migliore.

La domanda di Liz, che non si pone esplicitamente ma che sembra permeare tutta la giornata fino al suo incontro della sera con uno dei vecchi compagni, sembra infatti essere questa: si può costruire qualcosa attraverso la semplice distruzione, emotiva e disarticolata? In altre parole: un'autentica rivoluzione può passare attraverso il mero "fare casino"?
Liz non appartiene a quel mondo decadente ed esclusivo che ha fatto di Max un ribelle infelice destinato all'implosione e alla sconfitta; ha sfiorato quel mondo quando lo ha sposato, ma non ne è mai diventata parte. È una tecnica di laboratorio, lavora senza sfruttare altri e senza esercitare privilegi di classe. Lei non ha nemici da uccidere dentro di sé, ha solo il desiderio lucido e costruttivo di superare quell'antinomia paralizzante che costringe all'inazione, alla passività di fronte alle storture della società: quella tra paura e vita.

«"Anche gli altri, sono quasi tutti così. Diventi loro amico, ci stai un sacco bene, e poi loro escono con certe frasi. Devi stare zitto e basta." Mi guardava accigliato, in viso un'espressione stoica e costernata, cercando una risposta ma sapendo già che non ce n'erano. Disse: "A volte vorrei che fossimo come gli altri."
Chiesi: "Quali altri?"
"Quelli che se ne fregano."»

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