domenica 24 maggio 2015

"È stato morto un ragazzo": Federico Aldrovandi che una notte incontrò la polizia

Ammazzare un ragazzo che ha assunto droghe è meno grave che ammazzare un ragazzo che non lo ha fatto. È questa la linea di difesa assunta dagli avvocati difensori dei quattro poliziotti che, durante le prime ore del 25 settembre 2005 a Ferrara, hanno soccorso e percosso Federico Aldrovandi, studente di 18 anni.
Quella notte Federico Aldrovandi - ritornando a casa dopo aver assistito ad un concerto a Bologna - si imbatte in una pattuglia della polizia. Gli agenti arrivano sul posto dopo alcune chiamate effettuate da dei cittadini che segnalavano schiamazzi da parte di una o due persone. Federico quella sera aveva assunto delle sostanze stupefacenti in limitata quantità (come confermerà l'autopsia) ma i suoi amici - in seguito - diranno che "stava bene, non barcollava e non era agitato". Diversamente i poliziotti diranno di lui: un esagitato che dava minacciosamente in escandescenze, sbatteva la testa contro i lampioni, arrivava addirittura a saltare sulla macchina della polizia (benché questi leggiadri 80 chili pare non abbiano lasciato alcun segno sulla carrozzeria).
Di fronte a una situazione simile, la norma sarebbe stata immobilizzare e sedare il soggetto pericoloso, naturalmente secondo il consiglio di un medico. Che Aldrovandi sia stato in effetti calmato e immobilizzato è innegabile: una mezz'ora dopo il suo incontro con i quattro poliziotti è moribondo. Cosa sia successo tra l'istante dell'incontro e quello del decesso, nessun testimone sembra saperlo. Prima c'era un esagitato sotto effetto di droghe che faceva casino, dopo c'era un ragazzo morto con segni di percosse sulle gambe e sul viso, nel torace le tracce di una morte violenta: in mezzo una quieta notte ferrarese senza occhi né orecchie.
Solo una voce ha permesso che si facesse luce, almeno in parte, su quella mezz'ora fatale (che i poliziotti per un pezzo si sono ostinati a ridurre a una decina di minuti). Diverse persone hanno chiamato le forze dell'ordine nel breve lasso di tempo, ma pare che nessuna di esse si sia poi interessata della fonte del trambusto o dell'esito dell'intervento dei poliziotti. La testimonianza chiave del processo Aldrovandi (quella che ha portato alla condanna degli agenti) si deve all'unica testimone non reticente, una camerunense in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.
Il documentario "È stato morto un ragazzo", realizzato da Filippo Vendemmiati, racconta in maniera dettagliata i fatti che portarono alla morte del giovane ferrarese e quelli che seguirono. In particolar modo -
grazie all'intreccio di intercettazioni, spezzoni del processo, interviste - vengono messi in mostra alcuni particolari che sicuramente al distratto spettatore medio delle trasmissioni di Barbara d'Urso sarà sfuggito (anche, probabilmente, perché la trasmissione media che si propina al distratto spettatore ha evitato con cura di essere esauriente al riguardo). A cominciare, per esempio, dalla testimonianza comune degli agenti sulle condizioni di Federico:



«Stava benissimo prima dell'arrivo dei sanitari».

In contraddizione con le parole con cui uno dei quattro poliziotti imputati racconta il fatto ad un collega:


«L'abbiamo bastonato di brutto».

In tribunale, dovendo rendere conto di questa esplicita ammissione, con candore lo stesso poliziotto garantisce che è solo "un modo di dire". Eppure, sembra proprio un caso in cui il manganello ha ferito più della lingua.
Il documentario di Vendemmiati ha il pregio di raccogliere questa e altre contraddizioni sfuggite alle maglie piuttosto larghe dei mass media o passate per tempi più o meno brevi sotto silenzio: è il caso, ad esempio, dei manganelli spezzati che misteriosamente spariscono dalla scena al sopraggiungere della polizia scientifica e di cui non si sarebbe probabilmente saputo nulla se quella volpe di Giovanardi non si fosse lasciato scappare il riferimento alle armi sparite. Ciò che più beffardamente emerge dal documentario di Vendemmiati è l'atteggiamento arrogante mostrato dai quattro poliziotti. Come non ricordare il commento di uno dei quattro (facilmente reperibile in rete) alla notizia del risarcimento ricevuto dalla madre di Federico:


«Che faccia da culo che aveva sul tg… una falsa e ipocrita… spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe… adesso non stò più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie…»

Parlando alla centrale per radio, i quattro agenti danno subito del giovane sconosciuto una descrizione tendenziosa: circa trentenne, evidentemente un tossico, tatuato, vestito da centro sociale. Uno sguardo imparziale vede invece un ragazzino appena maggiorenne con addosso una felpa firmata; il famigerato tatuaggio è il timbro della discoteca che l'indomani si lava con acqua e sapone.



«I periti enfatizzano l'uso di droga, ma se mio figlio era indebolito dagli stupefacenti, che bisogno c'era di usare violenza? Federico è morto di anossia posturale, che è più o meno come morire crocifissi.»
[Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi]

La realtà dei fatti, tragicamente constatabile, si scontra allora con la pretesa arrogante di essere
dalla parte del giusto. La presa di posizione è ovviamente pregiudiziale e le idee delle autorità sono ben chiare ancora prima dell'inchiesta e dell'autopsia (e prima che saltino fuori i famosi manganelli spezzati):



"Il procuratore capo Severino Messina fa il punto sull'inchiesta del decesso del giovane Federico Aldrovandi: «Faremo di tutto per scoprire la verità, ma non c'è nessun collegamento tra le lesioni esterne e la morte»".
[Articolo citato nel documentario]

Per fortuna, oltre a questa indubitabile verità a priori, altri si sono premurati di trovarne un'altra suffragata dai fatti. A far luce sarà il giudice Francesco Maria Caruso nella motivazione della sentenza di condanna in primo grado: 

«un furioso corpo a corpo tra gli agenti di polizia e Federico, durante il quale vennero rotti due manganelli, con i quali colpirono l’Aldrovandi in varie parti del corpo, continuando dopo che lo stesso era stato costretto a terra e qui immobilizzato al suolo, nonostante i verosimili ma impari tentativi del ragazzo di sottrarsi alla pesante azione di contenimento che ne limitava il respiro e la circolazione».

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