giovedì 11 febbraio 2016

"The Hateful Eight": Tarantino chi?

All'uscita dal cinema una cosa mi è stata definitivamente chiara: che Tarantino ha buttato tutto alle ortiche, nella forma e nella sostanza. Vendetta, giustizia retributiva, distruttiva originalità, cronologie allucinate, il suo caratteristico citazionismo maniacale... Se una sola frase deve descrivere l'ultimo film di Tarantino, per me sia questa: non sembra un film di Tarantino.
"The Hateful Eight" è un film abbastanza comune, eccellente prodotto americano, dalla metà in poi intriso dello splatter molto cafone alla Rodriguez che in Tarantino si era sempre accompagnato a ben altro che al mero spiattellare sangue sullo schermo. Soprattutto, mi hanno amareggiato gli entusiasmi dei miei vicini di poltrona: chi abbia amato questo film, davvero, davvero, non so cosa mai abbia potuto apprezzare del Tarantino di "Le iene" o di "Pulp Fiction" se non parolacce e pistolettate.



L'iperrealismo dei dialoghi tarantiniani, quel loro involversi voluttuosamente su espressioni ripetute e ritornanti, quel loro indugiare gravemente su narrazioni e ipotesi sviscerate e rimontate secondo criteri quasi folli: anche tutto questo è sparito. Ne sono rimasti dialoghi ripetitivi e pesanti, semplicemente: inautentici, come un impacciato scimmiottare il gergo dei western, ridondanti, come un impacciato scimmiottare lo stile di Tarantino. E i tempi lunghi e lenti, quanto di meglio Tarantino avesse saputo ereditare e far personalmente e pienamente suo del cinema di Sergio Leone, quei tempi lunghi che facevano gustare ogni sguardo di sfida, ogni pausa, ogni attrito, in "The Hateful Eight" sono semplicemente tempi morti. La sostanza, dei dialoghi come delle situazioni, è come diluita in linguaggi e pose convenzionali. La stessa "diluizione" si riflette sull'aspetto formale, che pur dando luogo a belle inquadrature sul panorama innevato e sui dettagli di colore all'interno dell'emporio, contengono poco o nulla che rimandi alle tecniche registiche innovative di Tarantino, al suo tipico "marchio di fabbrica", al suo piglio postmoderno e assolutamente (nel senso etimologico di sciolto, libero dalle convenzioni) creativo.
I dialoghi, posticci e vacanti, sono messi in bocca a personaggi tutt'altro che indimenticabili. Su tutti brilla Samuel L. Jackson, inarrivabile per recitazione e autenticità, praticamente solista in un coro stranamente assortito. Tim Roth, che pure venero, in questo film mi sembra scimmiottare inutilmente i personaggi interpretati da Cristoph Waltz: la parlata forbita, l'accento straniero, l'abbigliamento, e ancor più evidentemente i vezzi e le espressioni del viso, i toni che dovrebbero suscitare ilarità o stupore. Chris Mannix è un personaggio psichicamente inesistente, privo di personalità, che sembra adattarsi ai diversi contesti senza avere alcun carattere né alcuno spessore: passa senza ragione dalla modalità stordito alla modalità Clint Eastwood, dalla modalità sudista-razzista a quella amicone dei neri. John Ruth, il personaggio interpretato dal mio amato Kurt Russell, per quanto esteticamente superbo, risulta pesante e ridondante: perfino le continue violenze e umiliazioni che impone alla sua prigioniera sono incapaci di suscitare irritazione o rabbia nello spettatore, e nella successiva sorte che tocca all'aguzzino non c'è catarsi né "giustizia", neppure tarantinianamente intesa. E la sua stessa prigioniera, Daisy Domergue, in apertura appare come un personaggio sopra le righe, una donna aggressiva e un po' fuori di testa, e promette di essere il miglior carattere, quello che riserverà più sorprese e alla fine si inserirà nella tradizione delle eroine vendicatrici tarantiniane: ovviamente non accade (quasi) nulla del genere e il potenziale rivoluzionario e catartico di questo promettente personaggio va alle ortiche insieme a tutto il resto. Ancora peggiori sono i personaggi marginali: uno su tutto, quello ritagliato di bell'e buono sulla persona di Zoë Bell (che pure in "Grindhouse - A prova di morte" aveva dato buona prova di sé nelle vesti di attrice), una specie di esaltata neozelandese che assurdamente si ritrova, giuliva e chiassosa, a guidare diligenze nel Wyoming vestita da indiana. Un personaggio inutile e perfino fastidioso, che con caratteristiche storicamente improbabili e una recitazione fin troppo enfatica sciupa un insieme che già di suo era sciupato.
Caratteristica principale di questo film, che non posso rimproverare a Tarantino ma di fatto ha generato un prodotto poco felice, è la sua finalità celebrativa. Infatti, la "ottina" del titolo non è tecnicamente composta di otto personaggi ma di nove, più altri di secondo piano; il titolo, un po' pretestuoso, non si riferisce effettivamente agli "otto" barricati durante una tormenta nell'emporio di Minnie, ma al film stesso, ottavo scritto e diretto dal nostro uomo. Un "odioso ottavo" film che si proponeva di essere il primo (e speriamo l'unico) pienamente firmato da lui: niente citazioni da altri registi, niente ruberie da vecchi western, perfino la colonna sonora è la prima interamente originale e composta da Morricone per l'occasione. Gli unici riferimenti che Tarantino ci offre sono a suoi stessi film: Michael Madsen (in pieno disfacimento fisico e dotato di un insieme mento-pappagorgia mai posseduto in precedenza) viene inquadrato dal basso, sullo sfondo del soffitto di legno scuro, con un'inquadratura che ricalca esattamente quella della strage dei Due Pini; Kurt Russell è inquadrato da sopra le travi, come usualmente Uma Thurman; i testicoli di un personaggio che non cito fanno la stessa fine delle «nazi balls» in "Bastardi senza gloria"; le battute di Roth ricalcano piuttosto fedelmente quelle di Waltz in "Django Unchained", e altro ancora. Eppure, questa celebrazione mi appare inautentica, perché proprio in quella che dovrebbe essere l'apoteosi del genio tarantiniano la sua mano esperta e ben riconoscibile sembra eclissarsi. Insomma, una festa senza il festeggiato.
Quanto al giudizio di non so bene chi, per cui questo film sarebbe addirittura "il più politico" di Tarantino... Onestamente, non so che film abbiano visto, considerato, per esempio, che il finale vede un sudista e un negro spanciarsi affettuosamente dalle risate, dopo aver osannato insieme Abramo Lincoln. Si calca di continuo la mano su "l'uomo nero, l'uomo nero": ebbene? In questo tema "Django Unchained" ha scavato ben più a fondo, pervenendo a risultati ben più solidi e palesi. No, questo film non ha nulla di politico, salvo una bella (davvero) riflessione sulla giustizia e sulla pena di morte, che Tarantino accenna (illudendomi) per bocca di Roth per poi tornare all'inutile carneficina. La considerazione è pronunciata dal boia della zona, che distingue tra la vendetta e la giustizia: l'omicidio compiuto da un braccio impersonale, animato da nessuna passione, che si limita a incarnare la legge, è considerato giusto dagli uomini; lo stesso omicidio, se compiuto dai parenti della vittima (ad esempio) può essere giusto (la solita giustizia retributiva che trionfa in "Kill Bill" come altrove) ma anche sbagliato, proprio perché pulsionale, perché non oggettivizzazione della legge ma di un singolo volere passionale. Riflessione sana e degna di essere approfondita, se non fosse che Tarantino la mette lì come un fegatello per non ripescarla più (anzi! Non voglio continuare a spoilerare, chi ha visto ha capito e chi vedrà capirà).
Quel che più mi dispiace, è che quest'ultimo film rischia di gettare, almeno per me, un'ombra retrospettiva sugli ultimi film di Tarantino; per non parlare delle sue produzioni future, dalle quali con diffidenza mi aspetterò di meglio. E mi dispiace anche che lui, Quentin Tarantino, abbia voluto accontentarsi, nel momento della meritata autocelebrazione, di un così misero monumento.

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